La prima cosa simile a un documentario su cui ho lavorato è stata un video girato a Genova nel 2001 da Alessandro Cattaneo. Alessandro aveva raccolto una serie di interviste non preparate ai manifestanti cosiddetti no-global durante i giorni del G8, con l’intento di capire chi fossero e che cosa li unisse. Tutte le interviste erano avvenute prima dei famosi fatti di cronaca, e anche se nelle riprese era spuntato qualche lacrimogeno l’intento era di prendere le distanze dai contenuti più violenti e sensazionalistici che avevano da subito riempito gli schermi dei televisori e le pagine dei giornali e di concentrarsi esclusivamente sulle persone. Già il titolo, Biografie, denotava un approccio quasi clinico, anche se in realtà il video lasciava trasparire un po’ di sana partecipazione.
Io del movimento no-global sapevo tutto e niente.
Avevo letto Naomi Klein e pensavo che le istanze che si contrapponevano al nuovo ordine finanziario e alla perdita di democrazia diretta fossero sacrosante, tuttavia la mia cronica riluttanza ad ogni forma di intruppamento agiva come sempre da deterrente ad ogni coinvolgimento diretto o adesione ideologica.

Inaspettatamente il gruppo di intervistati era abbastanza eterogeneo.
Studenti, lavoratori più o meno precari, ma anche agenti immobiliari, normali impiegati, perfino un prete. C’era insomma quella cosa di cui sentiamo sempre parlare, la “società civile”, ma che però sui media non abbiamo quasi mai occasione di vedere, proprio perché estremamente eterogenea. Se quelle poche decine di intervistati, scelti a caso sul posto dal regista, rappresentavano anche solo un campione indicativo dei simpatizzanti del movimento allora la realtà dei fatti era non poco diversa da quella sparata sui media. La faccia del movimento no-global sui canali di informazione generalisti era fatta di intellettuali pseudo sinistrorsi e giovinastri incappucciati dalle barbe incolte che nessun padre di famiglia avrebbe voluto come genero e forse neanche come figlio.
Ciò che stava a cuore agli intervistati era prendere posizione contro le crescenti diseguaglianze sociali, contro l’asservimento della politica allo strapotere finanziario, e a favore di scelte di sostenibilità etica e sociale; erano piuttosto lucidi nella loro analisi del mondo così come nel riconoscere la difficoltà di tradurre in pratica i propri intenti, e nel riconoscere anche le ambivalenze del movimento. Tutti si sentivano strumentalizzati dai media e speravano che la manifestazione fosse pacifica e non ci fossero problemi.

Quando qualche anno dopo mi sono trovato a rivedere il video ho pensato che avrebbe meritato più esposizione di quella che ebbe ai tempi. Forse non sarà stato particolarmente ben fatto o stilisticamente rilevante; ma mi sembrava avesse il valore di un reperto storico. Una schietta, fulminea, lucida testimonianza perduta.

Lo rivedo e non posso fare a meno di pensare che quello era il tipo di indagine che andava fatta per raccontare al pubblico in modo minimale ma onesto chi erano davvero i manifestanti, qual era la loro idea del mondo, quali i cambiamenti che chiedevano: non voglio sembrare presuntuoso ma c’era più servizio pubblico in quella mezz’ora scarsa di video che in tutte le ore di tg e talk show a base di fumogeni, black bloc ed estintori andati in onda durante e dopo il G8.
Lo rivedo e non posso fare a meno di pensare che nel 2001 la globalizzazione era il cavallo di battaglia delle destre, e chi esprimeva dubbi sulle multinazionali, sulle banche e sul Fondo Monetario era un sovversivo; in Italia governava la destra e di destra era l’allora ministro dell’interno Scajola, che con tanta disinvoltura fece alzare i manganelli (per non dire degli ordini di aprire il fuoco se i manifestanti avessero sfondato la zona rossa). Oggi la destra e le sue appendici populiste hanno cambiato maschera e rigettano nel piatto in cui hanno mangiato, sbraitando contro “l’Europa dei banchieri”, le delocalizzazioni, l’internazionalismo e la finanza globale ed ergendosi ad accusatori di un sistema con cui sono stati in connivenza.
Lo rivedo e non posso fare a meno di pensare che tutte le tematiche importanti di inizio millennio (lavoro, neoliberismo, solidarietà, diseguaglianze sociali, flussi migratori, crisi della democrazia diretta, sovranità popolare, globalizzazione appunto), temi dei quali le forze di sinistra avrebbero potuto e dovuto farsi portatrici, sono stati scippati dalle destre in un gioco di specchi che ha il solo scopo di mantenere il potere e annichilire allo stesso tempo il valore della politica vera. Mentre avveniva questo mediocre gioco di prestigio i democratici, i progressisti e gli anticapitalisti, radicali e non, si sono messi ad inseguire le proprie code crogiolandosi al pensiero che avrebbero potuto comunque “fare opposizione” (quando non sono stati anch’essi conniventi, sia chiaro). Dopo aver abbandonato le parti sociali che avrebbero dovuto proteggere e aver rinunciato a farsi ispirare dalle loro rivendicazioni, ora sono vicini all’estinzione.
Lo rivedo e non posso fare a meno di pensare che dopo Genova il movimento no-global è stato ridotto all’oblio. Ci sono stati timidi segnali di resistenza (i Social Forum nel 2002), ma poi è scomparso nel nulla. Eppure quei temi sono ancora ben presenti oggi, anzi sono oserei dire di un’attualità sconvolgente; ma asfaltato il movimento, nessuno si è prodigato di raccoglierli e dargli legittimità politica. Invece è qui che stiamo vivendo, in quel mondo tanto paventato dai no-global, un mondo nel quale si globalizzavano interessi e capitali e non diritti e solidarietà. L’odierna Unione Europea può forse fornirci qualche esempio.
Lo rivedo e non posso fare a meno di pensare a come sia facile mandare a puttane una festa: basta lasciar entrare due imbucati che spaccano tutto, qualcuno riprende le scene più violente, poi arriva la polizia e mette tutti dentro, che i vicini di casa di feste non ne vogliono più sapere.

Se esiste una lezione da trarre dalla atrofizzazione dei movimenti di protesta “dal basso” nati negli ultimi decenni, dai no-global a Occupy a tanti movimenti anti-austerità, è che l’azione diretta e immediata può dare i suoi frutti, ma questi cadono sempre troppo vicino all’albero. Finchè il desiderio di cambiamento rimane orizzontale e non viene incanalato in una struttura politica, resta quello che è: un desiderio.
Un desiderio frustrato si presta ad essere strumentalizzato, ed è per questo che è probabile che molti degli intervistati del video oggi abbiano abbandonato l’impegno politico, o siano da un’altra parte della barricata.
Il mondo globalizzato è pieno di persone in cerca di un “altrove”, che tentano disperatamente, e spesso inconsapevolmente, di andare “da un’altra parte”; per farlo, sono anche disposte a salire sul primo treno che passa, senza sapere dove è diretto.
Io credo che il ruolo della politica futura, qualsiasi forma possa assumere, sarà prima di tutto assicurarsi di dare ai fuggitivi una destinazione certa, diversa e migliore, alla portata di tutti. E di arrivarci in orario.