Non ho mai saputo perchè l’avevano soprannominato così.
Posso dire che non credo che il nomignolo si riferisse a una delle molte città americane con quel nome, e nemmeno alle specie di pesci australiani, o alla celebre Campagna di Saratoga con cui nel 1777, in piena guerra di indipendenza, gli inglesi cercarono di strappare agli americani il controllo del fiume Hudson. No, essendo nato su un set ed avendo come protagonista un macchinista più probabilmente l’aneddoto, e il soprannome che ne era derivato, doveva avere a che fare con la famosa marca di colla sigillante.

Ho conosciuto Saratoga sul set di un cortometraggio, sul quale io, da giovane agli esordi qual ero, occupavo il gradino più basso: quello di runner. Risorsa preziosa ero però, perchè parlavo poco e mi davo da fare, due cose che nel giro di poche ore mi avevano reso oggetto di contesa tra le maestranze (sempre perennemente in cerca di grezza forza lavoro a cui spremere sangue) e altri reparti (per i quali i compiti erano solo apparentemente meno faticosi, tipo recuperare una tazza di the con latte in piena notte mentre si girava una scena in uno scalo ferroviario chiuso al traffico).
Di tutti, Saratoga era il mio preferito: il solo a cui, se avessi potuto scegliere, avrei voluto essere affidato. Faceva parte della squadra dei macchinisti e in primo luogo era l’unico che mi trattava come un essere umano. Poi, nonostante allora non avesse credo ancora trent’anni, era il tipo che emanava vita vissuta pericolosamente: fisico piazzato, capelli lunghi, gran fumatore di Marlboro, un sorriso raro ma aperto e gentile. Aveva una sfilza di lavori di ogni genere alle spalle,  e correva voce che il mondo del cinema lo avesse salvato da chissà quali abissi.
Ma al fondo era il classico gigante buono. Pacato, cordiale, a tratti anche un filo ingenuo. Occhio a non farlo incazzare, però, soprattutto nel traffico: teneva il cric sotto il sedile del furgone e se qualcuno gliene faceva una di troppo al primo semaforo scendeva in strada e gli si presentava davanti con l’aggeggio in pugno, e non per sistemargli le ruote.

Saratoga era piuttosto benvoluto da tutti ma non era il tipo che dava troppo peso a quello che pensavano gli altri. Ricordo una volta che durante un discorso tirò fuori il suo cellulare, uno dei primi modelli in circolazione. A quei tempi non era ancora diventato uno strumento di massa e addirittura da qualcuno veniva visto come un oggetto chic, che si usava per darsi delle arie.
“A me non me ne frega niente di quello che mi dicono” diceva Saratoga “Se io lavoro lo devo anche a lui. Io ci campo con questo affare.”
Quasi una profezia: di lì a pochi anni quasi tutti, nell’ambiente del cinema e non solo, avrebbero campato con quell’affare.
Quello che però per me differenziava Saratoga da tutti gli altri era che aveva una morale. Una sua morale, che lo distaccava dai colleghi macchinisti o elettricisti, troppo poco pensanti, come anche dalle figure più “artistiche” tipo i costumisti, gli operatori, il direttore della fotografia e il regista, sicuramente pensanti ma spesso auto-riferiti e troppo concentrati nel loro lavoro per cogliere certe sfumature.
Per esempio una volta eravamo in furgone e stavamo andando a fare un ritiro.
Passiamo di fianco al Naviglio e Saratoga mi racconta di  quando ha lavorato sul set di Kusturica. “Una scena complicata, c’è voluto un sacco di tempo e c’era un attore che doveva stare in acqua, immerso nell’acqua del Naviglio, e Kusturica continuava a dire “Un’altra, un’altra”, e intanto faceva freddo e pian piano veniva buio, c’era bisogno di sistemare le luci, di cambiare l’inquadratura e questo tizio immobile, come dimenticato da tutti, sempre in acqua. Il film poi l’ho visto, una scena bellissima, fatta da dio: ma io continuavo a pensare a questo povero cristo costretto a stare per ore al freddo dentro il Naviglio.”

Era un uomo con un’etica, insomma.
Una sera dopo il lavoro sono andato a casa sua a bere una birra.
Abitava in uno dei palazzoni già allora vetusti nel quartiere Bonola. All’interno l’appartamento era essenziale, a parte un enorme flipper che campeggiava in salotto.
Come succedeva spesso con lui si cominciava parlando di risse e si finiva a discutere di massimi sistemi.
“Sai qual è la parola più pericolosa del mondo? Quella che se la pronunci ti scavi la fossa da solo? Prova a indovinare. Ti passeranno per la testa insulti, bestemmie di ogni tipo. No, te lo dico io qual è la parola più pericolosa del mondo: PACE. Tutti quelli che ne parlano, che ne parlano seriamente intendo, finiscono malissimo. Gandhi predicava il pacifismo e la nonviolenza, e cosa gli è successo? Gli hanno sparato. Com’è finito Martin Luther King? Morto sparato, pure lui. Persino John Lennon, Give Peace A Chance, mica se l’è cavata. Ammazzato per strada. Se tu pensi che i più grandi guerrafondai, i grandi dittatori della storia, i Pinochet, i Videla, i Franco, sono morti ultraottantenni per cause naturali…addirittura Hitler si è dovuto sparare da solo per essere fatto fuori. Non è un mondo all’incontrario, quello in cui la pace e la tolleranza attirano l’odio e la violenza?”

Cazzo se aveva un’etica, Saratoga.
Pure troppa per lavorare nel cinema.

Non l’ho più rivisto, ma penso a lui di tanto in tanto.
Per esempio qualche mese fa, quando ho letto un libro che teorizzava che Mussolini non fosse stato ucciso (da chi, poi, non si è mai capito) e che sarebbe morto di vecchiaia aspettando un grande ritorno che non si è mai realizzato.
Oppure quando leggo un quotidiano online o guardo le notizie in TV e mi chiedo come sarebbero raccontati oggi personaggi come Gandhi o King.
Probabilmente un video in cui il Mahatma inciampa e ruzzola a terra durante la marcia del sale avrebbe più visualizzazioni di un suo discorso di protesta; e riguardo al Reverendo, si spenderebbero più parole sulla sua sospetta vita extra-coniugale (con la quale già allora si tentò di screditarlo) che sulle sue rivendicazioni culturali e politiche.
Oggi la nascita di eroi, veri leader e guide spirituali è impossibile: l’epoca post-moderna è dominata dal cinismo e segnata dalla fine delle grandi metanarrazioni. Anche se persone del genere esistessero, e sono sicuro che esistono, non avrebbero il terreno su cui germogliare.
La realtà può essere cupa e irrazionale, ma mai quanto il racconto che ne viene fatto. La cronaca che i media fanno del presente non è basata sui fatti, ma sull’alternanza tra desiderio ed eccitazione da una parte, e rabbia e frustrazione dall’altra. In questo contesto l’ascesa di un personaggio o di un ideale è direttamente collegata alla sua caduta; e la discesa comincia dal momento esatto della sua affermazione. Lo smarrimento e la disillusione nei confronti della politica e l’incapacità di intravedere spiragli di futuro passano anche da qui, dall’effetto deformante di un racconto della realtà sempre più invasivo nelle modalità (è ormai diventato quasi impossibile sfuggire alle informazioni) e sempre più distorto e frammentato nei contenuti (quella che ci viene raccontata, più che la realtà, assomiglia spaventosamente alla sua ombra).
Però il futuro c’è, ed è diverso. Per arrivarci c’è bisogno di molto tempo, di impegno e di immaginazione, e quando le condizioni saranno mature, del ritorno della politica. Ma prima possiamo cominciare a distaccarci gradualmente dalla passività con cui assorbiamo la narrazione del presente. Recuperare la nostra autonomia nei confronti dell’interpretazione della realtà potrà, spero, farci fare il primo passo verso il raddrizzamento di quel “mondo all’incontrario” che un umile macchinista soprannominato Saratoga mi aveva descritto molti anni fa.