Frequento la Grecia da parecchi anni.
Nonostante ci sia andato un paio di volte per lavoro o altre incombenze, per la maggior parte sono stati viaggi di piacere. Dopo tutti questo tempo devo ammettere che i miei ricordi cominciano a mescolarsi: un viaggio si confonde con un altro, un anno con il successivo, un’isola con il continente. I ricordi e le esperienze sembrano perdere i loro confini spaziotemporali e sciogliersi lentamente, cuocendosi insieme come gli ingredienti di un’immane lasagna, o meglio, di una moussaka o di un pastitsio.
Un gorgogliante pasticcio greco.

Se si trattasse di un altro luogo, probabilmente la cosa avrebbe una valenza negativa.
Ma per la Grecia è diverso.
Ecco perchè sto imparando ad accettare, a benvolere anzi, la languida, aromatica mescolanza del pasticcio greco e a non preoccuparmi di perdere a volte i riferimenti precisi dei luoghi, delle persone, dei momenti. A favorire questo impasto c’è il fatto, al quale mi sono avvicinato lentamente, che nonostante le distanze tra i luoghi e le diversità degli abitanti ciò in cui ci si imbatte in terra greca è spesso una serie di assonanze.
Una ragazzina che avrà si e no quindici anni balla un ritmo tradizionale a Aeropolis, nel Peloponneso, e una coppia di anziani balla lo stesso ritmo a Rodi.
Un tizio si arrampica di sua iniziativa su un albero per tagliare i rami che impediscono il passaggio di un bus su un strada di Creta, e quattro passanti si coalizzano all’angolo di una via nel centro di Atene per spostare di peso un’auto parcheggiata che blocca un autocarro.
Un tassista ti chiederà dove sei diretto, ti farà salire a bordo della sua Mercedes d’epoca come se ti stesse concedendo un raro privilegio, e non lo rivedrai finchè non torna con altri tre o quattro sconosciuti che il destino vuole facciano più o meno il tuo stesso tragitto, prima di partire a motore allegro, finestrino semiabbassato e bicchiere di caffè frappé sul cruscotto: e questo che tu sia all’uscita di un aeroporto in città o in un buco di villaggio sul mare.
Qualcosa insomma che riporta ostinatamente, proprio come un ostinato musicale, ad una radice comune; e proprio la musica greca è stata la prima cosa che mi ha colpito ai tempi del mio primo viaggio, per la sua apparente impermeabilità. Che fosse il rebetiko suonato dal vivo o mandato in sottofondo nelle taverne, la musica dance che usciva dai club o la hit di qualche popstar alla radio, era tutta made in Greece. Il resto del mondo sembrava non esistere e se qualcosa di esterofilo arrivava alle tue orecchie non erano in realtà i Chemical Brothers di “Galvanize”, ma piuttosto l’originale di Najat Aatabou che il duo di Manchester aveva campionato, o al massimo l’improbabile cover di un brano dei Radiohead rigorosamente cantata in greco.
Rimanendo in metafora musicale quindi, è come se la Grecia tutta non fosse che un enorme canovaccio, come il blues (o il rebetiko appunto), che si basano su una struttura prestabilita per dare vita a infinite interpretazioni.

Non posso dire di conoscere la Grecia meglio dell’Italia.
Non posso neppure dire di conoscere i greci meglio degli italiani.
Ma di capirli meglio degli italiani sì, e proprio in virtù di questo senso di identità comune che a noi invece manca, e che sembra trascendere il tempo e lo spazio.

Come se una volta passato il confine si aprisse una porta su un universo apparentemente immutabile, trasparente nelle sue eccellenze come nelle sue bassezze. Diverso insomma dalla condizione di altri paesi europei, Italia in testa, in cui basta percorrere un centinaio di chilometri per trovarsi sorpresi da un altro clima, un altro dialetto, cibi completamente diversi, per non parlare dell’indole e delle tradizioni degli abitanti. Ci sono più punti in comune tra gli antichi Greci e i loro discendenti contemporanei piuttosto che tra i Romani e gli italiani di oggi. Non che la Grecia non abbia diversità geografiche e culturali; ma l’unità supera le differenze, e questo è ciò che rende un viaggio in Grecia un’esperienza che non è soltanto in un luogo, ma in uno stato (inteso come condizione, carattere, entità).

Si potrebbe dire che proprio questo dovrebbe essere il sentimento della nazione che ha dato vita alla democrazia: un’espressione di diversità che raggiunge una sintesi partendo dal basso. A volte però, più che nella patria della democrazia, qui ci si sente piuttosto in una sorta di laboratorio anarchico.
La Grecia, se non devi convivere quotidianamente con la lentezza e la disorganizzazione dei suoi apparati istituzionali, è un paradiso di semplicità. Lo è perché le sue sono radici arcaiche, che riconducono a valori e sentimenti primari. Ma lo è anche perché consente all’individuo spazi di libertà personale che in altre società sono pressochè repressi. Ti permette di godere delle cose semplici e di scrollarti di dosso le remore di una civiltà spesso più imposta che genuinamente sentita. Suggerisce che il disordine e l’egoismo che l’anarchia porta con sè possano essere ridimensionati dal rispetto di poche regole condivise.
Nel farlo, esige il suo credito. In un peculiare ribilanciamento di diritti e doveri, richiede tolleranza agli insofferenti e fermezza ai remissivi. Quella stessa libertà che tu furtivamente ti prendi devi essere disposto a cederla agli altri – e il greco per sua natura s’allarga, invade gli spazi, impone i suoi tempi, i suoi modi, i suoi gusti. Maestro nell’arte di arrangiarsi, non segue nessuna etichetta e respinge la formalità. Può apparire pigro e approssimativo nel suo lavoro, ma non significa che non sia un buon lavoratore: semplicemente il lavoro non è il suo scopo primario nella vita.
Il greco insomma è ciò che è e non fa grandi sforzi per apparire diversamente.

In questo è esattamente come le sue città, in cui abbacinante bellezza e desolante squallore crescono accanto, ti appaiono assieme nel campo visivo e non separati da strade, isolati, quartieri.
Non è un segreto che i greci non abbiano mai amato Atene, considerata capitale di secondo grado rispetto alla perduta Costantinopoli. Markaris scrive che gli ateniesi

“uscendo di casa possono ritrovarsi in una città piena di sole, con i tavolini dei caffè pieni di gente. Appena girato l’angolo possono trovarsi in un imbottigliamento che gli farà perdere la giornata o inciampare in un marciapiede rotto o trovarsi davanti a un cumulo di rifiuti. I loro sentimenti cambiano da una strada all’altra”.

Sottoscrivo tutto, e se è vero che i contrasti emergono più vividamente nei contesti urbani, non sono comunque limitati alle città. I greci non sono famosi per la loro coscienza ecologica e a volte anche le loro spiagge sono seminate di rifiuti; spesso sulle isole lo smaltimento è troppo costoso e si abbandonano auto, mobili ed elettrodomestici in un campo o in fondo a una scarpata; in tutta la regione del Peloponneso, che è grande quasi quanto l’Emilia Romagna, non c’è una discarica legale secondo gli standard comunitari.

Questa trascuratezza si manifesta in diversi modi nella cultura e nella vita pubblica dei greci.
Nikos Kazantzakis, autore di “Zorba il greco” e “L’ultima tentazione di Cristo” è probabilmente il più celebre scrittore greco dopo Omero. E’ nato a Heraklion, sull’isola di Creta (l’aeroporto cittadino porta il suo nome), dove è anche seppellito. In ogni altro paese del mondo, la sua tomba sarebbe segnalata su tutte le mappe della città. Se Kazantzakis fosse nato in una qualsiasi cittadina americana, persino il negozio del suo calzolaio di fiducia sarebbe sulle guide turistiche.
A Heraklion non ci sono indicazioni per la tomba di Kazantzakis. Bisogna salire alla cieca lungo una strada anonima sulla sommità di uno dei sei bastioni che circondano la città, fino a un piccolo giardino al centro del quale, apparentemente dimenticato, un rettangolo di pietra poggia su un altrettanto anonimo lastricato. Se non ci fosse una croce, non si capirebbe nemmeno che è una lapide.
A volte mi viene da pensare che se l’Acropoli non fosse stata dov’è, cioè appunto in alto, i greci se la sarebbero dimenticata.

Quanto di tutto questo è semplice disinteresse e quanto qualcosa di più antico e profondo, per esempio la percezione di quanto l’opera umana sia fondamentalmente effimera? Perchè a volte è proprio nel modo in cui lo splendore si muta consapevolmente in rovina che si percepiscono i secoli di storia che la Grecia si porta sulle spalle; e dal fatto che a differenza di altrove le rovine non sono nascoste ma esibite con nettezza, come a testimoniare che il tempo non è altro che una grande livella che tutto appiana, tutto parifica, tutto rende dello stesso valore.

“Zorba il greco” è la storia dell’amicizia tra due uomini molto diversi, uno dei quali incarna molti tratti dello spirito ellenico. Il romanzo termina con un clamoroso fallimento al quale Zorba reagisce bevendo vino e ballando il sirtaki.
Forse la cosa più nobile e pericolosa del greco è proprio questa, l’accettazione della caducità, la noncuranza verso la corruzione ed il fallimento.
Ma questa è una storia che proseguo più avanti.

 

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