Qualche anno fa mia cugina ha scritto un tema su di me. Più che un tema una sorta di breve descrizione di un personaggio della famiglia.
A un certo punto una frase ha catturato la mia attenzione. Diceva più o meno così: “Mio cugino usa molto la tecnologia per lavoro, ma nella vita privata la tiene alla larga”.  
Devo ammettere che non avrei saputo dirla meglio.
La mia indole nei confronti della tecnologia è sempre stata refrattaria e sospettosa. Prima di iniziare a lavorare nel mondo dell’editing non lineare, cioè prima dei miei vent’anni, non avevo mai messo seriamente mano a un computer; il mio primo lettore CD me lo regalò un amico, esasperato dal fatto che all’alba del nuovo millennio io viaggiassi ancora a vinili; e mi sono convinto ad acquistare un cellulare non tanto perchè interessato, ma perchè mi ero stancato di essere bidonato all’ultimo da amici e conoscenti che lamentavano di non potermi avvisare dei loro repentini cambiamenti di programma. In poco tempo si era verificato uno spostamento di prospettiva: la colpa non era loro, anche se dicevano una cosa e poi ne facevano un’altra, ero io che mi tagliavo fuori da solo perchè non ero rintracciabile. Un po’ la stessa cosa che mi succede oggi con Whatsapp.
Qual è però il motivo vero di questa mia diffidenza? Sarà semplice fascinazione per il vintage? Rifiuto del conformismo? Primitivismo culturale?

Probabilmente, come è stato lampante anche alla mia cuginetta, è stato in buona parte il mio lavoro che mi ha portato ad affrontare il boom social-tecnologico che stiamo ancora vivendo in modo distaccato e con abbondante spirito critico. Pensandoci oggi, mi accorgo che il lavoro che faccio ha rappresentato una delle avanguardie dell’era digitale nella società contemporanea: il primo rudimentale sistema di montaggio video non lineare è datato 1971, anche se nel campo l’avvento del digitale diverrà ufficiale solo a cavallo tra la metà degli anni ’80 e il 1991, con Edit Droid e le prime versioni di Avid.
Faccio notare che nel ’91 non esisteva ancora Internet, almeno non per le masse; non erano ancora stati diffusi i primi mp3; tutte le emissioni televisive erano rigorosamente analogiche; GPS e telefoni cellulari erano di là da venire.
Il montaggio è stato anche il primo settore ad essere digitalizzato all’interno del sistema audiovisivo, infatti fino a circa la metà degli anni 2000 in Italia si continuava a girare in pellicola o su nastro, quando l’editing e la post-produzione video e audio erano passati al digitale da più di un decennio.
Insomma non voglio farla lunga: la rivoluzione digitale per me è iniziata presto, e nel tempo l’evoluzione della tecnologia nel mondo delle immagini si è fatta via via più rapida, portando grandi comodità e una velocizzazione impensabile delle tempistiche; ma in contemporanea ho visto imporsi la velocità sulla qualità e le logiche di mercato sugli interessi degli utenti.
Se le innovazioni tecniche procedono per sostituzioni e sovrapposizioni (il personal computer ha sostituito la macchina da scrivere, il DVD ha soppiantato il VHS, Facebook ha ucciso MySpace, Whatsapp ha reso obsoleto Skype, e via dicendo), la discriminante del successo di un formato vincente non è quasi mai la qualità, bensì i minori costi di produzione, la rapidità della diffusione e la riproducibilità.

Le aziende del settore hanno scoperto che siamo ben felici di mandare in pensione qualcosa di funzionale ed efficiente se possiamo rimpiazzarlo con qualcosa di più comodo e meno costoso. L’affermazione dell’mp3 è uno degli esempi più calzanti. 

Riguardo alle logiche di mercato, il campo della tecnologia ne è infestato, ma ancora una volta mi servirò di un esempio tratto dal mondo del cinema citando Walter Murch, celebre montatore e sound designer: “Siamo una comunità di creativi che dipende da imprese private e multinazionali”.
In altre parole: se ai tempi del montaggio in pellicola la lampada del proiettore o il rocchetto della moviola si rompevano si potevano comunque aggiustare o sostituire, e il lavoro poteva andare avanti; oggi se un’azienda decide di ritirare un software di editing utilizzato professionalmente perchè non rappresenta più un investimento interessante, nessuno degli utenti può farci nulla.
E’ successo più o meno lo stesso in molti altri campi, bisogna ammetterlo. Però mi sembra che il mondo delle immagini, e in maniera particolare l’editing e le pratiche di post-produzione, possano rappresentare una specie di cartina tornasole per interpretare alcuni fenomeni in corso nella società moderna, soprattutto legati al nostro rapporto coi media.

Penso ad esempio a quello che chiamerò in modo un po’ pomposo l’accesso diretto alla sovrastruttura di sistema. Per sovrastruttura di sistema intendo tutti quegli apparati tecnici e professionali che vanno dal broadcasting ai trasporti, dal commercio al dettaglio alle comunicazioni.
Fino ad una ventina di anni fa circa si poteva montare video professionalmente soltanto con macchinari costosi, e le case produttrici vendevano hardware e software proprietari; a causa dell’enorme memoria richiesta ai tempi per digitalizzare immagini e suoni il software poteva lavorare a risoluzioni non alte, e se il video era destinato alla messa in onda c’erano procedimenti specifici che si dovevano mettere in pratica e che si potevano realizzare soltanto in selezionati laboratori di post-produzione. Più comunemente, anche un videoamatore dilettante che avesse voluto  montare il filmino delle sue vacanze estive mettendoci sotto una musica di accompagnamento e in testa un bel titolo in giallo non avrebbe avuto molte risorse per farlo.
Invece già cinque, sei anni più tardi potevo montare un documentario con un computer portatile, utilizzando un software piratato, nella camera da letto di casa mia. Non soltanto: nel giro di pochissimo tempo avrei anche potuto finalizzarlo senza bisogno di macchinari e operatori esterni, e addirittura (meraviglia delle meraviglie!) generare un file per la messa in onda, e non su una sconosciuta emittente di provincia, ma su una televisione nazionale. La rapidità di questi “salti in avanti” è perfettamente integrata nella cosiddetta legge di Moore, che esamina proprio il progresso esponenziale nell’informatica, e secondo la quale la potenza di calcolo dei processori raddoppia all’incirca ogni diciotto mesi.

Questo è un esempio di accesso diretto alla sovrastruttura di sistema: oggi una tecnologia più snella unita alle potenzialità della rete ci dà la possibilità di gestire direttamente da casa nostra ciò che prima era nelle mani di una “élite” professionale: possiamo prenotare alberghi e voli aerei, acquistare ogni tipo di prodotto e metterci in collegamento con chiunque in ogni parte del mondo senza bisogno di intermediari. Non abbiamo bisogno di negozi, agenzie di viaggi, macchinari costosi. La sensazione che abbiamo è di essere stati “liberati” da una catena di costi e di incombenze, nonché di poter avere tutto all’istante.

Il passo immediatamente successivo è stata la democratizzazione dei contenuti.
Dal momento in cui abbiamo “democratizzato” i sistemi per post-produrre, non c’erano ostacoli a democratizzare anche quelli per produrre. Attraverso lo sviluppo di una serie di codec di compressione sempre più efficienti sono nate le prime macchine fotografiche e macchine da presa digitali, e sempre più velocemente si sono evolute ed integrate tecnologie che hanno prodotto videocamere minuscole integrate nei telefoni cellulari, in grado di partorire file ad ultra risoluzione; il tutto perfettamente compatibile con applicazioni o piattaforme che permettono di mettere i tuoi contenuti in streaming ovunque nel mondo.
Se l’accesso diretto alla sovrastruttura di sistema ha reso possibile la presa dei mezzi tecnici,  la democratizzazione dei contenuti ha “liberalizzato” le nostre pulsioni espressive, ma non solo: cosa ben più importante, ha soprattutto aperto la porta su un mondo in cui tutti noi, individualmente, possiamo metterci sul mercato.

Trovata la chiave per l’accesso ai servizi, cosa poteva impedire di crearli noi stessi? E per di più potendo proporsi su un mercato globale?

Ora, a scanso di equivoci: certo che anch’io traggo vantaggio dall’accesso diretto alla sovrastruttura di sistema. Certo che la democratizzazione dei contenuti ha dato anche a me più occasioni di espressione.
Ma questo non mi porta a credere che se ho libero accesso agli strumenti di lavoro di una figura professionale divento un professionista io stesso. Sarebbe come dire che chi va in palestra è di fatto un atleta, o che chi guida diventa automaticamente un pilota. 
La conseguenza più immediata della democratizzazione dei contenuti non è stata tanto la libertà di esprimersi, quanto il dovere di farlo. Questo ha portato all’abbattimento della parete esistente tra il pubblico e il privato, almeno nel mondo virtuale. Non c’è più filtro tra la bontà di un contenuto e il fatto che possa essere distribuito in massa, e questo vale sia per le opinioni sui social che, ad esempio, per i video su YouTube o la musica su iTunes o le varie piattaforme di streaming.
Il messaggio della rivoluzione digitale sembra proprio dire questo: “Ecco, finalmente contate anche voi”. Per che cosa contiamo pare non essere però di nessun interesse.

Quello che mi infastidisce, e che condanno, non è l’evoluzione tecnologica in sè stessa. Sarebbe un atteggiamento ipocrita, considerando che anch’io in un modo o nell’altro ne approfitto.
E’ piuttosto la diffusa mancanza di senso critico con cui i prodotti tecnologici vengono accolti che mi repelle e mi spaventa. E’ l’hype generalizzato, che viene pompato ad hoc per venderci prodotti ad alto livello di assuefazione, accompagnato dal messaggio neanche tanto subliminale che non possiamo fare a meno di utilizzarli. Perchè questo è il mio punto: rivendico di scegliere se una tecnologia può essermi utile, e di rifiutarla se credo non solo che non lo sia, ma che possa essermi anche dannosa.
Credo che sia un errore pensare che ogni nuovo upgrade possa migliorarci la vita a prescindere, e considero l’obbligo di seguire l’hype una bassa imposizione consumistica. Trovo disarmante che la maggior parte delle persone, incluse quelle munite di ottima cultura e consapevolezza sociale, non si preoccupino minimamente di questioni come il trattamento dei loro dati personali.
Inoltre mi chiedo: perchè tutta questa enfasi tecno-innovativa sembra essersi concentrata quasi tutta in un paio di settori, quello delle comunicazioni e del commercio online? Perchè risulta più urgente renderci tutti ancora più connessi e reperibili (quando lo siamo già abbondantemente) piuttosto che incentivare l’accesso di massa a processi altrettanto semplificanti nel campo del risparmio energetico, dell’amministrazione pubblica, dell’assistenza sanitaria e sociale? Il vero ostacolo è la difficoltà tecnica o piuttosto la carenza di profitto?
Dove sto andando a parare è piuttosto chiaro: se un assunto da cui partire è che nessuna tecnologia è di per se stessa buona o cattiva ma dipende dall’uso che ne viene fatto, allora l’uso che ne viene fatto è una questione intrinsecamente politica.

 

continua in HASTA LA AUTOMATIZACIÓN!