La Grecia che ho conosciuto è stata anche la Grecia della crisi economica; e la crisi, esplosa pienamente nel 2010, è anche una cartina tornasole per capire il popolo greco.
Cercherò di spiegare come per me la grecità si riveli sia nelle cause che negli effetti della crisi.

Nel fatidico 2010 si contavano 13 anni dalla firma del trattato di Maastricht e 8 da quello di Lisbona, nonchè dall’entrata in vigore della moneta unica. L’Unione Europea cercava ancora di barcamenarsi nella gestione della propria economia, da sempre sua priorità; per ciò che riguardava l’affermazione di un vero progetto politico comunitario si trovava naturalmente in alto mare. La recessione del 2007 arriva quindi a scuotere le già traballanti economie europee portando con sé il crollo delle finanze pubbliche, l’isteria bancaria e, a strascico, i branchi di speculatori, che se prima potevano misurarsi con i titoli delle aziende quotate in Borsa ora hanno la possibilità di scalare addirittura intere nazioni: il sistema si dimostra straordinariamente esposto proprio sull’unico fronte che non avrebbe mai dovuto cedere, l’unico pilastro sul quale ha deciso di poggiarsi l’affollato condominio europeo.
In quel momento accade qualcosa che per l’Europa è un immane flagello e per il mondo della finanza un dono della provvidenza: il governo greco recentemente insediato rende nota la scoperta di un buco di bilancio che l’esecutivo precedente, a guida conservatrice, aveva nascosto all’Unione.
I bilanci truccati del 2009, come compiti in classe taroccati consegnati da pessimi scolari a professori sospettosi, nascondevano anni di corruzione e nepotismo. Cercavano di occultare la penosa condizione del settore pubblico (in Grecia quasi la metà dei lavoratori dipendenti lavora per lo stato), il debito accumulato dallo stato nei confronti dell’imprenditoria privata, la malsana gestione delle Olimpiadi del 2004, e un’evasione fiscale difficilissima da estirpare. Dietro quest’ultimo punto ci sono a mio avviso anche questioni raramente finite sotto i riflettori, come il fatto che il territorio greco, frammentato tra una parte continentale, tre penisole maggiori (il Peloponneso, la Calcidica e il Pelio) e più di 200 isole abitate, sia amministrativamente molto complesso da controllare, oppure il fatto che circa il 40% dei terreni di tutta la nazione sia di proprietà della chiesa ortodossa, la quale lo utilizza in gran parte in regime di esenzione fiscale.

Ecco allora che l’imputato principale diventa proprio la grecità: gli inquilini del condominio Europa si scagliano contro il vicino moroso, bollando i greci come “fannulloni”, gente di poco conto, di cui non ci si può fidare.

La tipica noncuranza greca diviene sinonimo di sotterfugio; il culto della famiglia e l’arte di arrangiarsi con semplicità si traducono in nepotismo e corruzione.

I responsabili del misfatto non sono più i governanti, gli amministratori pubblici, i possessori di grandi patrimoni che non dichiarano al fisco. Chi deve pagare è il popolo tutto, quindi per la maggior parte persone al di fuori di ogni circuito politico o economico che magari nemmeno sanno che il loro paese ha contratto un debito, non sanno con chi lo ha contratto, non sanno che quel debito è stato spezzettato, rivenduto e ricomprato da chissà chi, non sanno che qualcun altro, in un paese lontanissimo e sulla base di oscure regole di valutazione, può classificarli come debitori insolventi.
La maldestra gestione politica del paese ha, di fatto, fornito l’alibi alla finanza mondiale: agenzie di rating, Fondo Monetario Internazionale, Banca centrale europea, Commissione europea e un buon numero di istituti di credito ora hanno a disposizione un campus rieducativo su cui applicare strategie da usurai che faranno da monito a tutti gli altri inquilini. Questo è ciò che succede a chi fa il furbo e non paga.
L’incubo di tutti gli europei negli ultimi anni è stato quello di “finire come la Grecia”.

Ma cos’è successo veramente in Grecia, e soprattutto, possiamo capirlo senza averlo vissuto?
Basterebbe citare qualche cifra per rendersi conto dei danni enormi che la popolazione ha dovuto subire, senza poter contare su alternative o vie d’uscita. Ma preferisco raccontare in modo magari meno approfondito ma più legato alla mia esperienza personale.
C’è da dire intanto che chi viaggiava per le isole negli anni della crisi aveva una minor percezione del peggioramento in corso rispetto a chi visitava il continente. Questo perchè le isole vivono principalmente di turismo, ma anche perchè i loro abitanti sono spesso benestanti proprietari di seconde case e di attività commerciali, o ex-cittadini ritiratisi a vita più serena. Gente che è comunque riuscita a mettere qualcosa da parte e che campa dignitosamente con poco. Anche dopo il 2010 il placido microcosmo isolano insomma sembrava più o meno andare avanti come sempre, soprattutto nei mesi estivi.
Diversa era la situazione nel continente, in particolare nelle città, e ancora peggiore nelle zone limitrofe alle grandi città, dove le pallottole sparate dalla troika non si erano limitate ad essere colpi di avvertimento. Se Atene era l’epicentro della tensione sociale, delle insurrezioni e delle proteste, Salonicco scivolava silenziosamente nel degrado.
Ci sono stato nel 2012 e non ricordo che mi sia mai capitato di arrivare in una città che aspettavo di visitare da tempo e ritrovarmi a voler tagliare la corda dopo 48 ore. Non erano tanto i negozi chiusi, lo stato di abbandono dei monumenti, i buchi nell’asfalto, gli interminabili cantieri stradali, i vagabondi per strada; anche dove la situazione sembrava normale si respirava un misto di rassegnazione e squallore, una diffusa sensazione di oscurità.
Ma i primi segnali che ricordo sono arrivati dai cani. Da soli o in branchi i randagi apparivano sempre più numerosi, invadendo le strade delle città come quelle di campagna o lanciando guaiti dai cassonetti dell’immondizia dove, appena nati, li abbiamo trovati in sacchetti di plastica assieme agli altri rifiuti. I cani sono stati per me i migliori testimoni dell’abbandono.
Ma non gli unici. Ne cito alcuni in ordine sparso.
Il centro di Atene, ad esempio, è una giungla in cui convivono turisti e borseggiatori, rigattieri e ristoratori, studenti e senzatetto. Rispecchia in pieno la capacità dei greci di non occultare il degrado, anzi di esporlo accanto alle proprie bellezze, cosa che gli effetti della crisi ha esaltato ancora di più. I luoghi più decadenti e pericolosi della città oggi non sono in periferia, o per le strade del famigerato quartiere anarchico di Exarchia, ma nelle zone più centrali tipo Omonoia.
Yorgos, che nell’estate del 2017 ci ha ospitati in un villaggio non lontano da Chania, a Creta, non ha del tutto rimarginato le ferite della crisi. Eppure a lui, che si è ritirato sull’isola dopo una vita di lavoro ad Atene, è andata meglio che ad altri: “solo” un taglio del 50% sulla pensione. Per fortuna è in salute, perchè se dovesse andare in ospedale avrebbe bisogno di portarsi persino le bende.
C’è qualcosa che non mi torna in quel marcantonio che gioca amorevolmente in acqua con la figlia piccola. Ho già visto il tatuaggio a forma di meandro che ha sul braccio. E’ lo stesso simbolo che campeggia sulla facciata di un edificio nella piazza di Gythio, nel sud del Peloponneso, accanto a ritratti spaventosamente simili nello stile a quelli dei martiri palestinesi. E’ il simbolo di Alba Dorata, che come ogni partito nazionalista ha approfittato dell’instabilità economica e del disagio sociale per diffondere xenofobia e omofobia, soffiando sul fuoco dell’antieuropeismo.
Quasi tutti gli under 30 in cui mi sono imbattuto hanno trascorso periodi più o meno lunghi all’estero: ragazzi che conoscono poco del loro paese al di fuori della zona in cui sono cresciuti, e quasi nulla del resto d’Europa, partiti tutti per quella nazione lontana da dove la crisi ha avuto inizio, sotto gli occhi stranamente disattenti di quelle stesse agenzie di rating che hanno sottoposto la Grecia ad anni di sorveglianza continua. Partiti e spesso tornati, anche solo per approfittare di un paio di mesi di lavoro estivo nel ristorante dello zio o nell’autonoleggio di papà, prima di riprovarci, se bastano i soldi.
Ad oggi in Grecia la percentuale di giovani disoccupati si attesta attorno al 45%.

Comunque la si voglia chiamare, la cura della troika ha funzionato.
Da anni la Grecia ha accettato lo smantellamento di quel che restava del proprio stato sociale e non è più uno stato sovrano. Difficile dire se e quando tornerà ad esserlo. D’altronde, non esistono stati sovrani nel momento in cui lo stato stesso diventa un prodotto finanziario che viene messo sul mercato come un’azienda o un fondo di investimento. Gli altri paesi dell’euro sono rimasti talmente terrorizzati che farebbero di tutto pur di evitare di sgarrare in materia economica, e sono chiaramente ricattabili sotto ogni tematica sociale o politica.

Curiosamente, le istituzioni finanziarie neoliberiste sono riuscire a far loro un motto maoista: “Colpirne uno per educarne cento”.

E qui torniamo alla grecità, e al suo manifestarsi nelle cause come negli effetti della crisi.
Nei negozietti di souvenir per turisti è apparsa negli ultimi tempi una maglietta con una scritta tanto frivola quanto emblematica:  GREEK CRISIS. NO JOB. NO MONEY. NO PROBLEM.
Potrebbe sembrare solo un modo di fare facile ironia, un tipico sfoggio di orgoglio mediterraneo. Indubbiamente lo è, ma se conosci i greci c’è di più di questo.
La scritta sulla maglietta mi sembra la punta di un iceberg fatto di piccole e grandi resistenze che la società greca tutta (ancora una volta faccio riferimento alle già citate “assonanze”) ha adottato in disprezzo della legge europea.
Vogliamo parlare del fumo? Il divieto di fumo nei luoghi pubblici è una direttiva comunitaria emessa nel 2008 che i greci da allora ignorano amabilmente.
L’uso del casco in moto è obbligatorio come in tutto il resto d’Europa, così come l’uso delle cinture di sicurezza, ma anche in questo caso la maggioranza della popolazione se ne infischia.
Mentre la burocrazia fiscale imperversa tra i vicini, e i richiami in favore di controlli e tracciabilità si moltiplicano, in Grecia il contante è ancora il metodo di pagamento più utilizzato.
Ora, non sto dicendo che questi siano esempi virtuosi di dissobedienza civile. Sto dicendo che fa perfettamente parte dello spirito greco rispondere alla caducità ed al fallimento con un mix di cinismo, epicureismo e anarchismo. Tutta roba che hanno inventato loro.
Nell’ Apologia di Socrate (il primo legal-thriller della storia della letteratura), dopo essere stato condannato Socrate deve avanzare la propria proposta di pena: dopo una attenta valutazione tra il carcere e l’esilio, opta per una multa in denaro di una mina d’argento  (una cifra ridicola al tempo), perchè è tutto quello che possiede, e come se la beffa non fosse sufficiente riesce ad elevare il prezzo a trenta mine tramite un prestito, guarda caso, dagli amici e seguaci capeggiati da Platone. Per tutta risposta, il tribunale lo condanna a morte, e Socrate ringrazia per l’opportunità. Affronta la condanna argomentando le sue ragioni, elevandosi moralmente al di sopra dei suoi giudici facendosi contemporaneamente beffe di loro, e infine accetta di buon grado la pena perchè gli apre le porte di un mondo migliore.
Ecco, in qualche modo mi sembra che l’atteggiamento del greco di oggi nei confronti della durissima condanna portata dalla crisi economica non sia molto differente.
E questo mi porta a pensare che davanti all’ingiustizia il singolo individuo può reagire in diversi modi: con sdegno, rassegnazione, rabbia, sarcasmo. Invece una società di individui, possiamo dire una nazione, può reagire in un modo solo, attraverso la coesione: e la coesione è la conseguenza di una forte identità comune. Se ciò che tiene assieme una moltitudine è solo un interesse materiale e momentaneo, la coesione non è destinata a durare, e quindi la società non ha anticorpi per preservarsi dall’ingiustizia.
Torno quindi al punto di partenza: se c’è una cosa che il popolo greco possiede è una forte identità comune. Ecco perchè hanno resistito finora, e perchè resisteranno.
La grande lezione incompresa della crisi greca, in ultimo, è che ad altri potrebbe andare molto peggio.

La tomba di Nikos Kazantzakis giace semi-dimenticata sulla sommità di Heraklion.
Ma i greci  non hanno bisogno di insegne e indicazioni per celebrare i propri mentori, nè di poggiare fiori freschi sulle loro tombe, o di sfruttare la loro grandezza post-mortem.
Gli basta aver ereditato il loro spirito e perpetuarlo ogni giorno.
La lapide è senza nome, senza data di nascita o di morte. L’unica iscrizione, in greco, recita: Den elpizo típota, de fobomai típota, eimai lefteros.
Non spero nulla, non temo nulla, sono libero.