Nell’articolo precedente mi interrogavo sulle ragioni del mio approccio spesso riluttante nei confronti delle nuove tecnologie. Mi giustificavo affermando che in realtà il mio non è affatto un problema legato alle innovazioni tecnologiche ma piuttosto alla mancanza di senso critico che generalmente accompagna la loro presenza nelle nostre vite, e dalla ipocrisia con cui il mercato fomenta l’hype legato a certi prodotti.
Ma a questo punto un’altra domanda si aggiunge alla mia auto-analisi, ovvero: esiste la possibilità che l’approccio personale nei confronti della tecnologia sia anche il frutto di un imprinting politico?

La domanda nasce dal fatto che per la mia esperienza le persone che prendono maggiormente le distanze dall’assimilazione delle nuove tecnologie tendono ad essere  politicamente schierate a sinistra. D’altronde, il conflitto tra ideologia di sinistra e tecnologia si può far risalire probabilmente alla Rivoluzione Industriale, quando le macchine sancirono la definitiva separazione tra lavoratori e mezzi di produzione, e con la figura del padrone si venne a identificare non solo la persona che dava lavoro ma anche colui che possedeva le apparecchiature. Il rapporto di sottomissione dell’uomo alla macchina ha reso la fabbrica un luogo di alienazione e sfruttamento, e la lotta al capitale è diventata anche lotta contro gli strumenti del capitale.
Per contro l’imprenditoria è sempre stata sedotta dalle nuove tecnologie, non solo per la loro capacità di creare profitto ma anche per il loro valore simbolico: l’oggetto tecnologico diventa status-symbol e anche soltanto il fatto di poterlo possedere, al di là della sua utilità, segna una distinzione di classe.
Un’altra vicenda che ha a mio avviso contribuito a esasperare lo scisma tra progressismo e tecnologia può essere quella legata al nucleare. L’uso deviato della ricerca scientifica che ha portato alla creazione e all’uso della bomba atomica ha alimentato, comprensibilmente, la narrazione di un mondo messo in pericolo dall’evoluzione tecnologica; i seguenti disastri ambientali scaturiti dalle centrali nucleari hanno radicalizzato lo scontro tra una classe di potere capace di utilizzare tecnologie senza scrupoli e un’opposizione che univa alle classi meno abbienti i ceti medi e il nascente movimento ambientalista.
Si potrebbero fare molti altri esempi di come questa frattura si sia radicata nel tempo, anche sfruttando le contraddizioni sempre più crescenti del fenomeno tecnologico: la nostra storia recente è costellata di invenzioni che all’inizio sono state accolte come libertarie ed egalitarie (anche dalle masse), per poi a distanza di qualche decennio mostrare un pericoloso lato oscuro. Così le automobili da simbolo di libertà ed emancipazione si rivelano anche causa di inquinamento, e il combustibile che le alimenta genera speculazioni e instabilità politica; la TV da benevolo mezzo di divulgazione e intrattenimento di massa si trasforma in oppio dei popoli e sistema di controllo; oggi è il turno di Internet,  degli smartphone e probabilmente (new entry post-Brexit e Trump) del concetto stesso di democrazia.

Ma al di là delle disamine il punto a cui mi preme arrivare è che sì, c’è una contrapposizione storica, culturale, ideologica tra la sinistra e la destra sul tema della tecnologia; che anzi questo punto di frattura è altrettanto importante quanto le divisioni su altre materie su cui si è più duramente consumato lo scontro, come i diritti civili, l’economia e la visione dello Stato; e che sull’argomento lo schieramento “progressista” e quello “conservatore” si sono inaspettatamente scambiati i ruoli.
Riassumendo ai minimi termini infatti la cultura di sinistra ha l’avversione nei confronti delle macchine nel suo DNA, ha perso la fiducia nel progresso e guarda all’evoluzione tecnologica in chiave prevalentemente distopica; la cultura di destra abbraccia la tecnologia e spinge verso il suo sviluppo per le potenzialità di profitto e per la visione consumistica e al tempo stesso elitaria che porta con sè.
E’ allora il caso di farsi l’ennesima domanda, ma è quella più importante di tutte: è davvero giusto che le cose debbano rimanere così?

Fa ancora parte di un’ottica di sinistra “resistere” all’espansione tecnologica (che tra l’altro pare un fenomeno impossibile da contrastare) oppure al contrario affrontare la questione da un punto di vista opposto è un atto doveroso per governare il cambiamento?

Per rispondere a questa domanda basta considerare l’impatto che questa espansione sta già avendo su un mondo che invece è stato sempre al centro della galassia delle politiche di sinistra: quello del lavoro. Se fate un giro sul sito dell’agenzia di consulenze e statistiche americana McKinsey troverete diverse ricerche sul tema e qualche grafico molto rappresentativo come questo, che mostra come cambierà nel giro di poco più di un decennio la quantità di ore lavorate in determinati settori in seguito all’adozione di tecnologie di automazione e intelligenza artificiale.

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Queste tecnologie dovrebbero portare numerosi benefici sotto forma di maggiore produttività, miglioramento delle prestazioni aziendali e nuova prosperità, ma cambieranno anche le competenze richieste ai lavoratori umani. In circa il 60% delle occupazioni, almeno un terzo delle attività potrebbe essere automatizzato. Se è vero che alcune attività lavorative (come quelle ad alta specializzazione e non routinarie) potrebbero subire pochi contraccolpi e anzi forse beneficiare di questa situazione, altre (come i lavori fisici e manuali, di analisi statistica o logistica, e in generale tutti i lavori di routine) sono particolarmente nel mirino. D’altronde esempi concreti esistono già: il terminal dell’aeroporto di Amburgo è completamente automatizzato e lavora 24 ore su 24 senza bisogno di esseri umani.
Se volete divertirvi visitate il sito del Job-Futuromat, sviluppato nel 2016 dall’Institute for Employment Research di Norimberga. Il sito è in tedesco ma potete farvi dare una mano da un traduttore online: si inserisce il proprio lavoro e il Futuromat calcola la previsione di automatizzabilità. Nel mio caso non è stato particolarmente ottimista: ho il 78% di possibilità di essere rimpiazzato da una macchina.

I signori Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee hanno pubblicato un libro piuttosto illuminante sull’argomento che si intitola “La nuova rivoluzione delle macchine”. Gli autori, entrambi ricercatori al Mit Center for Digital Business, sono chiaramente favorevoli al progresso tecnologico ma non ne nascondono i lati oscuri: per esempio il fatto che il cambiamento in corso accentui la disparità dei redditi, aumentando sia la domanda relativa di lavoratori istruiti sia la quota di profitti che vanno ai possessori di capitale e riducendo invece sia la domanda di lavoratori meno istruiti (i cui compiti prevedono spesso mansioni di routine cognitive o manuali) sia la quota di reddito che va al lavoro. In ciascun caso è stata creata della enorme ricchezza e sono aumentati i guadagni dei “vincitori” rispetto a quelli dei “vinti”. Oltre a ciò si è creato anche un terzo gap tra vincitori e vinti, quello tra le superstar di un campo e tutti gli altri: imprenditori, alti dirigenti, star dello sport e dello spettacolo, studi legali. Gente che incamera sempre più velocemente grandi profitti e altrettanto rapidamente aumenta il proprio divario di ricchezza con i più ricchi.
Le nuove tecnologie hanno diverse responsabilità nella creazione di questo divario: a parte la già citata automazione, spesso queste superstar sono imprenditori digitali, basti pensare ai creatori di Facebook o Instagram, o all’inventore del meno celebre Turbo Tax della Inuit (un programma che automatizza la dichiarazione dei redditi), il cui amministatore delegato guadagna quattro milioni di dollari l’anno. Imprese che non hanno bisogno di molto lavoro umano non specializzato e i cui giganteschi introiti sono spartiti tra pochissimi.
Ma gli esempi sono molteplici: ad esempio la digitalizzazione di un numero sempre maggiore di informazioni, beni e servizi favorisce un mercato in cui un solo vincitore può prendersi tutta la posta mettendo all’angolo la concorrenza (è il caso di Google e Amazon).
Il mondo verso cui automazione e digitalizzazione ci stanno traghettando rischia quindi di reggersi su un paradosso: da una parte più abbondanza, da un’altra più disparità economica. Non esattamente un modello di equilibrio.
Come suggeriscono anche i due autori però, dobbiamo guardare le cose dal punto di vista politico, nell’accezione più ampia del termine: in altre parole, il problema non sta nel cambiamento, ma in come viene governato.

L’automazione non dev’essere per forza foriera di disastri, può essere anzi un’opportunità.
L’opportunità ad esempio di cambiare la nostra  prospettiva sul lavoro stesso: se le macchine ci prendono il lavoro, noi dovremo riprenderci il tempo. Oppure in scala ancora più grande, l’opportunità di costruire un futuro post-capitalista, sottraendo al capitale proprio la sua forma primaria di sussistenza, ovvero la forza-lavoro salariata. Tutto ciò implicherà il bisogno di ricavare la nostra sopravvivenza da un’altra fonte di reddito, ma anche il fatto di modificare la nostra etica del lavoro e la nostra visione della produttività e della meritocrazia; implicherà il fatto di garantire un’istruzione migliore, più estesa e più economica alle nuove generazioni, per “correre con le macchine” e non contro di esse; implicherà il fatto di tassare adeguatamente i redditi più elevati (e magari di mettere un argine al loro sviluppo esponenziale), così come l’uso di inquinanti.

Lavoro, istruzione, tasse sul patrimonio, ambiente: di cosa stiamo parlando se non di temi storicamente legati alla sinistra?

Ecco perchè argomenti come la riduzione della giornata lavorativa o il reddito universale non possono non essere discussi all’interno di un incubatore di sinistra, seppure in un’ottica di sviluppo a lungo termine. Bisogna cominciare a pianificare una politica che equilibri l’accelerazione tecnologica con la redistribuzione della ricchezza e con la nascita di un nuovo contratto sociale. Soltanto una autentica politica di sinistra, per quanto in parziale discontinuità con il passato, può prendersi in carico questo progetto.
Nel loro discusso “Manifesto per una politica accelerazionista” Alex Williams e Nick Srnicek affermano che “la sinistra deve sviluppare egemonia socio-tecnologica”:

Vogliamo accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica. Ma ciò di cui argomentiamo non è tecno-utopismo. Mai credere che la tecnologia sia sufficiente a salvarci. Necessaria sì, ma mai sufficiente senza azione socio-politica. La tecnologia e il sociale sono intimamente legati l’uno all’altra, e il mutamento dell’uno potenzia e rafforza il mutamento dell’altra.

Viviamo in un mondo sempre più rapidamente trasformato dall’evoluzione tecnologica, in un momento storico in cui lo sviluppo promette di continuare ad accelerare ridefinendo le nostre entità individuali e sociali, politiche ed economiche, creando nuovi  rapporti di forza e proiettando una serie di futuri possibili che dal nostro presente possono apparire tanto utopici quanto distopici. Perchè lasciare tutto questo in mano a una destra sostanzialmente incapace di promuovere uno sviluppo sostenibile e di distribuirne equamente i benefici? Conservatori, populisti e neoliberisti non si sono fatti scrupoli nell’appropriarsi di tematiche storicamente associate alla sinistra (come lavoro, immigrazione e lotta ai poteri forti) e declinarle in altra chiave, tutt’altro che nuova e brillante.
Se la tecnologia è destinata a plasmare sempre di più le nostre esistenze individuali e sociali, allora una visione di sinistra sul suo sviluppo è decisamente necessaria. Su un argomento così importante per il futuro di tutti sono le forze progressiste e democratiche che devono essere all’avanguardia, per una volta. D’altronde, non è rigettando la modernità e puntando tutto sulla disobbedienza civile e sul localismo che la sinistra può farsi portavoce delle istanze delle classi meno fortunate, dei lavoratori e delle minoranze. I compagni non sono stati meno ricettivi di altri all’assuefazione nei confronti dei social network, non mi risulta che siano sfuggiti al fascino dell’e-commerce, nè che si siano fatti troppe domande sui danni del peer-to-peer ai produttori di contenuti. Per cui penso che potrebbero prendersi qualche responsabilità in più quando il terreno della tecnologia si allargherà a dismisura e toccherà questioni fondamentali.

E riguardo a me? Alla mia inclinazione nei confronti della tecnologia?
In fondo, è da lì che sono partito.

Picasso diceva dei computer: “Ma sono inutili. Possono darti soltanto risposte”.
Non riesco a non essere d’accordo, ma al tempo stesso se voglio essere coerente devo adeguarmi ai cambiamenti. Non dico che sono pronto a diventare un tecno-entusiasta sempre pronto ad abbeverarsi alla fontana del progresso tecnologico; vorrei continuare a esercitare il mio diritto di scegliere se una tecnologia mi è utile oppure no.
Ma quanto meno tenterò di coniugare spirito critico e fiducia nel futuro. Comincerò limitando la mia libido per le auto d’epoca e cercando di provare empatia per chi legge un Kindle; prima o poi sostituirò anche il mio vecchio televisore a tubo catodico.
So che ce la posso fare.