Da qualche parte, 2050.
Da quando la mobilità è stata ridotta drasticamente, l’unico modo di viaggiare è visitare i giganteschi padiglioni delle varie Fiere del Mondo che annualmente vengono installati nelle grandi città. Pagando un biglietto di ingresso i visitatori possono aggirarsi tra gli stand che rappresentano i vari paesi e fare tour in 3D, gustare cibi tipici, acquistare prodotti esotici, persino (con una maggiorazione) passare la notte in un finto hotel tipico del luogo o cenare in un finto ristorante tipico sulla spiaggia, con tanto di finto mare e finta sabbia.
Viaggiare davvero è diventata roba per pochissimi: in parte a causa delle limitazioni generali alla libertà di movimento, in parte per l’instabilità che ormai regna in sempre più nazioni e territori, in parte perchè solo i più facoltosi si possono permettere di sobbarcarsi le ingentissime tasse sull’inquinamento che incombono sui mezzi di trasporto, aerei in primis.
L’aviazione civile ormai è quasi scomparsa. Chi può permettersi di volare sono solo i super-ricchi. E pensare che fino a trent’anni prima c’erano ancora i voli low-cost.
Lo scenario può apparire catastrofico, ma i presupposti perchè si avveri non mancano. A partire dalla sostenibilità dei voli aerei.
Infatti anche se praticamente tutti gli studi confermano che l’auto può avere un potenziale inquinante maggiore di un aereo (soprattutto se a bordo dell’auto c’è un solo passeggero) e attribuiscono al traffico aereo circa il 3% delle emissioni globali, è risaputo che presto o tardi i voli finiranno nel mirino. Campagne che promuovono l’astensione nei confronti dei viaggi aerei già appaiono su testate giornalistiche importanti e ha cominciato a diffondersi il termine “flygskam”, o “flying shame”, dal movimento nato in Svezia che promuove il boicottaggio degli aerei per ridurre la propria impronta ecologica.
La consapevolezza ambientale è un tema importante, ma prima di colpevolizzare chi prende un volo di andata e ritorno una volta all’anno forse bisognerebbe guardare altrove.
Il 2018 è stato in cui la prima classe è entrata ufficialmente in crisi.
Compagnie come British Airways e Delta Airlines hanno ridotto sensibilmente l’offerta di posti in prima; rispetto a dieci anni fa, United e Lufthansa li hanno più che dimezzati; Turkish Airlines e Air New Zealand li hanno cancellati del tutto. Solo Emirates è in controtendenza, ma questo è dovuto in gran parte allo sfruttamento del ricco e trafficato hub di Dubai.
Cosa c’è dietro questa crisi, esplosa peraltro in un momento in cui il mercato del lusso non è certo in sofferenza? La risposta semplice è che le differenze tra first class e business class, in materia di servizi e comodità, si sono via via assottigliate. Già da diversi anni alcune compagnie approfittano della promozione di servizi di prima quali docce o letti matrimoniali più per usarli come “esca” per le altre classi che per beneficiare della loro vendita effettiva. E se in business si può avere un sedile-letto e un pasto decente le aziende non si faranno problemi a far volare i loro executives con qualche privilegio in meno.
La risposta meno ovvia ma più rilevante è che la prima classe sta diventando un articolo obsoleto perchè sono sempre di più i super-ricchi che possono permettersi un jet privato.
I servizi di vendita e noleggio condiviso hanno contribuito a renderli una scelta abbordabile; ma la vera manna sono state le facilitazioni fiscali.
In Europa aziende e privati possono evitare di pagare l’Iva facendo transitare l’acquisto dall’Isola di Man. Secondo l’Economist dal 2011 più di 900 milioni di euro di imposte sarebbero stati evasi in questo modo.
Negli Stati Uniti una recente riforma fiscale permette addirittura di cancellare il 100% delle tasse federali dovute per l’acquisto di un jet privato.
La cosa è resa ancora più beffarda dal risultato di un paio di studi, uno della società di consulenza e tecnologia ICF e l’altro della Stern School of Business dell’Università di New York, secondo i quali il rapporto tra utilizzo di jet privati da parte di manager o dirigenti d’azienda e produttività delle aziende stesse è inversamente proporzionale. In parole povere i costi di un tale investimento non equivalgono a benefici per gli azionisti: l’uso dei jet risponde invece a variabili più “personali” quali le iscrizioni a club di golf o l’acquisto di case vacanza a lunga distanza.
Cosa ha a che fare tutto questo con l’ambiente è semplice: un jet privato ha un’impronta ecologica 10 volte superiore a quella di un volo di linea e nel giro di un trentina d’anni, incentivandone l’utilizzo, i jet potrebbero arrivare a produrre il 4% delle emissioni nei soli Stati Uniti, a fronte dello 0,9% attuale.
Una situazione resa ancora più paradossale dal fatto che i voli privati sono esclusi dal CORSIA, un piano per ridurre le emissioni nell’aviazione internazionale a cui partecipano molte linee aeree.
I ricchi, insomma, possono inquinare liberamente e senza controlli, scaricando nel frattempo il peso della crisi ambientale sulla moltitudine degli abitanti del pianeta.
Anche per questo è arduo stabilire quanto movimenti come il “flygskam” siano efficaci strumenti di sensibilizzazione sulla tematica ambientale oppure avvisaglie di una “guerra tra poveri” sul clima che si profila all’orizzonte.
Per incoraggiare la sostenibilità ambientale dei voli aerei ed impedire la loro futura”privatizzazione” sarebbe già sufficiente tagliare drasticamente gli incentivi fiscali sui jet privati e applicare per contro una carbon tax sui loro consumi, imporre all’aviazione privata l’adesione al CORSIA o a qualunque patto internazionale sulla riduzione delle emissioni aeree, e incentivare la ricerca sulle tecnologie che potrebbero davvero produrre velivoli più ecologici in futuro: dalla turboventola ai carburanti alternativi, fino all’uso di motori elettrici e motori capaci di autoraffreddarsi.
Invece di lasciare a pochi la libertà di inquinare, si dovrebbe puntare a restituire a molti la libertà di viaggiare.
Pochi mesi fa i leader mondiali e molti dei delegati che partecipavano al World Economic Forum sui cambiamenti climatici atterrarono a Davos ognuno con il proprio jet: circa 1500 voli privati transitarono dal piccolo aeroporto svizzero in meno di una settimana.
Regolamentare questo dannoso quanto incoerente traffico di VIP è oggi anche una sfida ambientale, doverosa quanto le altre politiche in materia di clima.
Nella foto: una delle flotte di jet della compagnia di aviazione privata texana Million Air.