NOTA INTRODUTTIVA
Pesco a piene mani dall’ottimo articolo scritto da Eleonora per Not (rimando in coda per il link al testo completo), una delle più lucide analisi che mi sia capitato di leggere sull’emergenza Covid-19. L’articolo offre diversi spunti di riflessione, qui ne riportiamo alcuni.
 In appendice una breve conversazione con l’autrice, che ringrazio per la disponibilità.
WM

 

Le misure adottate dal governo italiano non sono il frutto di una psicosi collettiva: come riportato da diversi esperti, la decisione è il riflesso di un calcolo razionale sulla capacità del Sistema Sanitario Nazionale, che non sarebbe in grado di reggere il colpo di un numero di contagi eccessivo. […]  È un ragionamento senza dubbio corretto, ma che arriva dopo decenni di smantellamento del welfare: un ragionamento che dovrebbe farci incazzare per la condizione a cui la sanità pubblica è stata ridotta, specie se riflettiamo su quale sia la fascia di popolazione maggiormente esposta ai rischi di un simile modello. […] In Italia così come all’estero, osserviamo i risultati di decenni di politiche di privatizzazione e di costante disinvestimento sulla sanità, i cui effetti tanto sulla chiusura degli ospedali quanto sui fondi per la ricerca hanno una ricaduta distribuita in modo fortemente diseguale sulla popolazione: a pagarne maggiormente le conseguenze, come sempre, sono proprio le fasce meno protette. […]

Se davvero ci fa tanto incazzare la compressione delle nostre libertà personali, o più banalmente ci infastidisce dover rinunciare alla routine abitudinaria delle nostre giornate, conserviamo questa rabbia e indirizziamola a chi ha sistematicamente eroso ogni forma di welfare in favore del «libero mercato» e del profitto privato senza nessuna sostenibilità. Lo stesso modello nel cui nome, tra le altre cose, è stata sdoganata l’industria degli allevamenti intensivi che ha generato, per esempio, il ceppo dell’influenza aviaria; ma anche lo stesso modello secondo cui sarebbe normale e giusto che il prezzo dell’amuchina o delle cure mediche schizzi alle stelle, fedele solo al dio della legge della domanda e dell’offerta.
A un certo discorso, che riduce a statistica il valore delle vite, secondo cui a morire per il coronavirus sarebbero solamente i soggetti più deboli (gli anziani, gli immunodepressi e, come sempre, i più poveri), bisogna dunque rispondere con una proposta radicale di ripensamento del welfare, che deve rimettere al centro dell’interesse pubblico l’universalità dell’accesso alle tutele, tanto sul piano sanitario quanto su quello economico.
Infatti, se il dispositivo emergenziale messo in atto in queste settimane in Italia risponde semplicemente alla presa di coscienza della totale inadeguatezza del nostro sistema nel garantire la salute pubblica, pare che non ci sia altrettanta attenzione alla tutela economica dei soggetti maggiormente esposti ai rischi di questa situazione. Le contraddizioni della fase che stiamo attraversando sono ormai evidenti. La sospensione di numerose attività e servizi sta mettendo in grave difficoltà un enorme numero di persone, la cui già fragile situazione economica è minata dall’emergenza e per le quali è necessario disporre quanto prima delle tutele che ne garantiscano una qualità della vita dignitosa. […]
Questa contingenza, come già sottolineato, ci offre l’occasione di riflettere sui limiti strutturali del modello economico e sociale che abitiamo, ma anche di ragionare sulle sperimentazioni a cui aprire per superarlo.  Ad esempio, a Hong Kong, per far fronte al crollo della domanda aggregata è stata approvata una sorta di helicopter money fiscale che garantisce diecimila dollari locali (circa 1170 euro) a tutti i cittadini maggiori di diciotto anni: «a mali estremi, buoni rimedi», ha chiosato Roberto Ciccarelli in un bell’articolo uscito sulle pagine de il Manifesto, osservando come una manovra di questo tipo strizzi l’occhio neanche troppo velatamente a una misura da istituzionalizzare in modo strutturale sotto forma di reddito di base universale.

Articolo integrale: https://not.neroeditions.com/covidnomics/

 

APPENDICE
Nel poco tempo trascorso da quando l’articolo è stato pubblicato abbiamo avuto altri segnali sparsi di quanto, a livello globale, la diffusione del Covid-19 abbia suscitato le reazioni più disparate da nazione a nazione, e in generale, stia mostrando molti nervi scoperti in campi come l’economia, il welfare e i diritti individuali. Cito alcuni casi apparsi sui media in ordine sparso: l’indiscrezione sull’offerta di denaro lanciata da Trump in cambio di un'”esclusiva” sul vaccino; i servizi segreti israeliani autorizzati a spiare i soggetti positivi al virus; l’immunità di gregge proposta, e poi ritrattata, dai consulenti scientifici del governo britannico. Nel frattempo più o meno ovunque emerge la metafora bellica: la lotta al virus “è una guerra”, i medici e gli infermieri “soldati in trincea”, avremo “la battaglia di Milano”.
Da un lato mi chiedo quanto questa retorica sia inevitabile, e se non miri a formare più uno spirito di corpo basato sul rigore e sul sacrificio, piuttosto che uno spirito di comunità basato sulla responsabilità e sulla solidarietà.
 Dall’altro quanto sia ancora possibile affrontare un problema globale con misure o contromisure nazionali e profondamente identitarie.

Uno degli strumenti più classici per analizzare le categorie politiche sono i cosiddetti political compass, che stanno spopolando anche grazie al rapido diffondersi della cultura dei meme. Si tratta di mappe a quadranti, dove sull’asse orizzontale si misurano le posizioni economiche da quelle più di sinistra a quelle più di destra e su quello verticale quelle inerenti alle libertà personali, dalle più libertarie a quelle più autoritarie. L’emergenza del coronavirus ha riportato al centro dell’attenzione la necessità di irrobustire e ampliare i dispositivi di protezione sociale – sia dal punto di vista sanitario sia da quello economico – mostrandoci chiaramente dove sarebbe opportuno collocarsi lungo l’asse orizzontale del political compass. Per quanto riguarda invece l’asse verticale, il dibattito pubblico sulle libertà personali appare ancora una volta irrigidito su posizioni dicotomiche e poco funzionali a una lettura complessa dei fenomeni. Da una parte credo sia giusto passare l’idea che l’interesse collettivo della società debba prevalere su quello individuale, dall’altra questa posizione risulta zoppa se non si riesce a costruire consenso sul fatto che tutto questo si rende necessario come forma di tutela dei soggetti più deboli. Per costruire una grammatica della comunità è necessario fondare il faticoso cambiamento delle nostre abitudini sull’alfabeto della solidarietà, che si pone in una posizione antinomica rispetto al linguaggio bellico che mettevi in evidenza.
Per questo, cercare soluzioni nazionali o identitarie a un problema di scala globale come questa pandemia oltre che miope, è fortemente contro-intuitivo: è necessario mettere a sistema conoscenze, capacità e risorse che si stanno maturando nella gestione dell’emergenza, come ad esempio ha fatto la Cina inviando aiuti all’Italia.

È un dato di fatto che nell’occidente capitalista c’è una dilagante incapacità di immaginare realtà minimamente alternative. Non mi riferisco solo a immaginare scenari futuri, ma anche a empatizzare con situazioni esistenti, che fanno parte del presente ma avvengono in un diverso contesto sociale, etnico o culturale. In pochissime settimane il virus ha smentito la percezione diffusa che il nostro mondo e il nostro stile di vita siano intoccabili e immutabili. Pensi che aver allargato drammaticamente l’orizzonte del “possibile” possa aiutarci, una volta passata l’emergenza, a considerare diversamente problemi globali come l’immigrazione e l’emergenza climatica?

Personalmente sono convinta che non si dovrebbe parlare di incapacità di immaginare realtà alternative, ma di mancanza di volontà politica. Ragionare in questi termini ci può aiutare da una parte a individuare qualche responsabilità nel disastro di mondo che ci troviamo per le mani – Covid19 a parte – e dall’altra a costruire consenso nell’idea che delle alternative esistano. Per quanto straniante e snervante possa essere, l’allargamento dell’orizzonte del “possibile” – come lo chiami tu, ed è una definizione che mi piace molto – è sempre un esercizio molto interessante, tanto a livello individuale quanto a livello collettivo. A livello individuale stiamo sperimentando la straordinaria capacità di adattamento che volenti o nolenti siamo chiamati a dimostrare di fronte a una situazione inedita come quella che stiamo affrontando. A livello collettivo possiamo finalmente mettere in discussione un modello economico che già prima mostrava tutti i suoi limiti: introdurre elementi di protezione sociale per i soggetti più fragili, guardare al fenomeno migratorio con una prospettiva diversa meglio inserita nei processi di globalizzazione, vincolare la produzione alla sostenibilità del sistema. Lo devono fare le istituzioni, ma lo dobbiamo fare anche tutti noi, costruendo una spinta verso questo modello alternativo dove il benessere delle persone deve essere al centro.

La strada per uscire dal loop capitalista è una strada a lunga percorrenza. Per ora, una strada che continua a non essere battuta da nessun movimento politico di rilievo. Eppure il tempo stringe. Mi piacerebbe sapere, per quanto puoi giudicare dalla tua esperienza, se attualmente esiste tra gli economisti italiani un concreto dibattito aperto a riguardo, per esempio su proposte come il reddito universale o l’imposta negativa.

Il dibattito sul basic income in Italia ha seguito una parabola tutta sua: da discussione di nicchia – considerata quasi un feticcio per intellettuali con la testa tra le nuvole – è diventato trend topic nel dibattito politico con l’istituzione del reddito di cittadinanza a cinque stelle dello scorso anno. All’epoca scrissi un articolo per Not in cui tentavo di inserirmi in quel dibattito mettendo in luce i limiti di quella proposta – che continuo a ritenere classista, paternalista e totalmente insufficiente. A livello internazionale è dagli anni Ottanta che si è sviluppata una rete di accademiche/i e attiviste/i, il BIEN – Basic Income Earth Network, che ha come oggetto di studio proprio i temi del reddito di base. Ne esiste anche un gruppo, il BIN Italia, che fa base nel nostro Paese: le studiose e gli studiosi che ne fanno parte fanno un lavoro preziosissimo sia in termini di elaborazione di proposte sia in chiave divulgativa. Tuttavia nel dibattito economico mainstream queste posizioni continuano a essere relegate ad un ruolo marginale, bollate come ingenuamente utopiste nella migliore delle ipotesi o pericolosamente anti-sistema nella prospettiva di chi ha tutto l’interesse a mantenere un certo status quo. Ora che, di fronte alla crisi economica innescata dalla pandemia, quello status quo si sta dimostrando (una volta di più) totalmente inadeguato, forse sarebbe il momento giusto per prestare ascolto a chi da anni propone un modello economico capace di mettere al centro la tutela di tutte e tutti.

 

Eleonora Priori è dottoranda in Economia e Sistemi Complessi all’Università di Torino. Si occupa di trasformazioni socio-economiche e contrasto alle diseguaglianze, ma ogni tanto pure del come e del perché l’economia andrebbe studiata diversamente. A tempo perso scrive.

Cover Image: Giovanna Ferrara