Secondo l’Enciclopedia Treccani, il “consumismo” è un “fenomeno economico-sociale tipico delle società industrializzate, consistente nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo, suscitato ed esasperato dall’azione delle moderne tecniche pubblicitarie, le quali fanno apparire come reali bisogni fittizî, allo scopo di allargare continuamente la produzione”.
In altre parole, il consumismo si manifesta nella necessità cronica, e talvolta compulsiva, di acquistare oggetti e servizi, senza che preventivamente si sia considerata la loro effettiva utilità o necessità, come risultato del desiderio di seguire una “moda”, in apparenza scelta liberamente ma in realtà indotta attraverso i media.
Nel XVIII secolo gli artigiani abbienti possedevano attrezzi di lavoro, pochi abiti e qualche mobile, mentre i contadini loro contemporanei non possedevano nulla. Oggi in qualsiasi abitazione del ceto medio si litiga in famiglia per accaparrarsi lo spazio per riporre una quantità di vestiti inutilmente ridondante.
Come si è arrivati a questo cambiamento?

Con la standardizzazione della produzione, la rivoluzione industriale ha consentito la disponibilità di quantità prima inimmaginabili di merci a basso prezzo. Il rapporto tra nuovo modo di produzione e la democratizzazione dei consumi è risultato da subito di reciproco stimolo. La crescita economica post bellica e le lotte sociali hanno portato ad una maggiore redistribuzione della ricchezza e alla nascita del ceto medio. I beni di consumo si sono affrancati dal concetto di “necessità” e “utilità” e l’industria ha iniziato a differenziare i prodotti, offrendo alle classi più ricche la possibilità di scegliere beni rappresentativi del proprio status sociale. Grazie al credito al consumo, l’accesso a beni voluttuari è risultato possibile anche a quella parte di popolazione che sino a pochi decenni prima lottava per coniugare pranzo e cena nella stessa giornata. I beni hanno quindi smesso di rappresentare la soddisfazione di una necessità concreta per trasformarsi in simboli dello stato di benessere sociale.
Scritto così, sembra la realizzazione utopica del contratto sociale di Jean Jacques Rousseau, ma la realtà ben nota è che la storia industriale è soprattutto la lotta di classe tra capitale e forza lavoro, tra proprietà dei mezzi di produzione e lavoro alla catena di montaggio.

Sin dalla sua origine, il consumismo si impone grazie allo sfruttamento dei lavoratori e fonda la sua crescita sul mantenimento e sulla stabilità dell’ordine sociale che vede le classi più ricche perpetuare i propri privilegi.

Ma c’è di più.
Abbiamo detto che la società dei consumi trasforma un bene in simbolo dell’appartenenza ad una classe sociale. Acquisire un bene normalmente in uso in una classe superiore illude di appartenere a questa classe. Nella realtà, l’apparente uguaglianza sociale generata da questo meccanismo psicologico non solo non abolisce alcuna distinzione classista, ma piuttosto impedisce che essa si renda evidente. E’ manipolando le necessità individuali che la pubblicità genera bisogni falsi ma percepiti come imprescindibili.
A fianco della schiavitù intesa come dipendenza economica da un lavoro alienato ne esiste quindi una seconda, non meno estraniante, che si esprime come dipendenza al consumo di beni spesso superflui e selezionati da altri che, con raffinati meccanismi di stimolazione psicologica, contribuisce ad occultare la percezione dello squilibrio di potere tra capitale e salario. Questo occultamento della realtà sociale è fondamentale per la continuità del sistema economico.
Ma c’è di peggio.

Nella seconda parte del Novecento, sino alla metà degli anni ‘80, le lotte sindacali hanno portato nei paesi dell’occidente al riconoscimento dei diritti dei lavoratori, migliorando le condizioni di vita, sicurezza e salute sul luogo di lavoro e il trattamento salariale, ponendo le basi per una tregua sociale. La disponibilità per tutti di accedere a sanità ed educazione gratuita consente l’allargamento della base dei potenziali passeggeri del cosiddetto “ascensore sociale”.


Però, nella metà degli anni ‘80, si fa strada nei teorici del marketing una nuova idea, apparentemente innocua, che si rivelerà pregna di cambiamenti epocali, alcuni devastanti per il mondo del lavoro.



Se nel primo dopoguerra l’assioma era che la produzione di beni nelle fabbriche fosse una funzione primaria e irrinunciabile, negli anni ‘90 tutto questo viene messo in discussione.
Multinazionali come Levi’s e Marlboro iniziano un declino verticale causato dalla presenza sul mercato di prodotti di qualità equivalente ma di costo inferiore. La recessione economica porta il consumatore ad acquistare il prodotto più conveniente piuttosto che il prodotto di marca e il martellamento dei messaggi pubblicitari sembra perdere improvvisamente di efficacia. Negli anni ‘70 il consumatore compra prodotti “di marca” in quanto “costruiti meglio” in fabbriche all’avanguardia tecnologica, con materie prime selezionate e da maestranze preparate. Nel nuovo millennio produrre merci cessa di essere una priorità per diventare una componente marginale delle attività aziendali. Gli articoli in produzione possono essere fabbricati senza lungo e costoso training per gli operai. Le materie prime sono le stesse per quasi tutti i più importanti brand mondiali e consentono forti economie di scala nell’approvvigionamento. Soprattutto, si può produrre ovunque, possibilmente dove il costo del lavoro è bassissimo.

In breve: le aziende si svuotano di contenuto, possiedono il minimo indispensabile di struttura e “brandizzano” tutto.

Si perdono posti di lavoro ad ogni livello dell’organizzazione: non solo non è più importante il lavoro di manifattura, ma sono sostanzialmente inutili i processi di approvvigionamento e le attività di supporto alla produzione. Diventa invece di fondamentale importanza la progettazione del prodotto, il suo design e, ovviamente, il marketing per venderlo. La riduzione del costo del lavoro e delle materie prime, nonché la perdita di valore “reale” del prodotto, sostituito ora dal valore “simbolico” e quindi sganciato dal suo costo di produzione, spinge i margini di guadagno a livelli sin qui impensabili.

Anche l’impatto sul mondo del lavoro viene esasperato rispetto ai decenni precedenti.
La produzione dei beni di consumo delle grandi aziende è appaltata a produttori e sub-produttori quasi sempre delocalizzati in altri continenti, e quasi sempre in luoghi dove non esistono diritti dei lavoratori e il lavoro è sottopagato. Ovviamente, queste scelte aziendali hanno notevole impatto anche nel mondo “ricco”, dove si perdono posti di lavoro prima ritenuti sicuri. Inchieste promosse dai sindacati o dall’iniziativa di coraggiosi reporter, documentano le scandalose condizioni nelle quali sono prodotte scarpe che al consumatore finale costeranno centinaia di euro. Oppure svelano che i giocattoli pubblicizzati nei cartoni animati sono assemblati da manodopera coetanea dei bambini per cui saranno acquistati. E’ un problema, perché le campagne di persuasione basate su “un’idea” acquistata insieme all’oggetto, hanno bisogno che questa stessa idea sia inattaccabile dalla morale riconosciuta e accettata.

Ma la soluzione è presto trovata. I contratti di appalto contengono disclaimer atti a deresponsabilizzare le multinazionali. E quando il desiderio di massimizzare il guadagno e la concorrenza selvaggia, induce il produttore finale a non andare troppo per il sottile sui diritti dei lavoratori, nel momento in cui le condizioni inumane di lavoro sono scoperte, i dirigenti delle multinazionali possono scandalizzarsi di fronte all’opinione pubblica, dichiarre la propria estraneità e garantire la cessazione di ogni rapporto di lavoro con il produttore incriminato.
Nella realtà, questa tipologia di contratti commerciali consente di non preoccuparsi di qualsiasi responsabilità nei confronti della manodopera ingaggiata dai produttori, di non dover dare spiegazione dei soprusi, di non dover sponsorizzare alcuna iniziativa di miglioramento delle condizioni di lavoro e di non subire alcun contraccolpo economico. Anzi, consente di continuare a perseguire un utile esasperato senza destabilizzare la propria mitologia aziendale.

I numeri tragici, frutto della quasi totale mancanza di diritti nel mondo del lavoro in Africa, Asia meridionale e APAC (Asia Pacific) parlano di 1,2 milioni di esseri umani ridotti a schiavi. Il dato è ricavato da uno studio delle Nazioni Unite (SDSN) insieme all’Università di Sidney e alla tedesca GIZ (cfr. Sara Toffano, Il vero nero del Black Friday, Mondo e Missione del 25 Novembre 2022).

Cosa si può fare?
La società dei consumi occidentale è una locomotiva che sta schiantandosi contro un muro perché non in grado di risolvere le proprie storiche contraddizioni: la disfunzionalità sociale derivante dall’esigenza di escludere l’80% della popolazione dal benessere, la necessità di basare la produzione sullo sfruttamento dei lavoratori negandone l’esistenza per non contraddire i principi morali che garantiscono l’ammissibilità del sistema economico, l’alienazione di una risposta etica al bisogno di felicità, naturale nell’essere umano, sostituita dalla creazione di falsi desideri, l’esaurimento delle risorse del pianeta.
Per creare un fronte di contrasto verso gli eccessi del capitalismo bisogna ritornare alla solidarietà tra individui che condivida una prospettiva di civiltà basata su valori diversi dal consumo fine a se stesso. Occorre sostituire il principio di appagamento ottenuto con il possesso di beni con la soddisfazione di condividere gli stessi beni con altri, preferendo aziende che mettono realmente al primo posto la sostenibilità della produzione. Bisogna imparare di nuovo a domandarci se realmente abbiamo bisogno di un nuovo telefonino o di un’auto più veloce. Si deve smettere di copiare i testimonial dei prodotti solo perchè illudono di farci condividere il loro mondo. Il cambiamento deve avvenire come metanoia nella gestione dei bisogni nel quotidiano che inizia dall’individuo, ma non può realizzarsi solo come prassi personale. Occorre ritrovare la solidarietà di gruppo, ripristinare una identità sociale che accomuni le persone unite in un sistema valoriale che promuova soprattutto una proposta politica. Esistono già organizzazioni sindacali, di consumatori, movimenti no-logo, associazioni culturali, partiti politici che esprimono la necessità di combattere il consumismo e le sue conseguenze perniciose, ma è fondamentale unire le forze per ottenere risultati concreti. Occorre farlo in fretta. Nel suo discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti, John Kennedy disse queste parole: “una società libera che non è in grado di aiutare i molti che sono poveri non riuscirà mai a salvare i pochi che sono ricchi.”
Sessant’anni dopo questa frase è più attuale che mai e dobbiamo farci i conti se vogliamo che il consesso umano possa sopravvivere ai cambiamenti climatici, alle paventate guerre nucleari, alla disperazione della povertà globale.

 

Maurizio Mambretti ha lavorato per più di 40 anni presso una nota multinazionale della finanza. Ora, finalmente, può dedicare più tempo a suonare, leggere, scrivere e guardare film.