Se c’è una cosa sulla quale l’industria dell’audiovisivo italiana è stata all’avanguardia negli ultimi vent’anni è stata il precariato. Il termine “precario” ancora non esisteva, almeno non nell’accezione che gli è stata poi data nel mondo del lavoro, ma noi precari lo eravamo già. Quando dico “noi” mi riferisco un po’ genericamente a tutti coloro che negli anni 90 cercavano lavoro nelle case di produzione, negli studi grafici, nelle agenzie pubblicitarie, nelle sale di registrazione e in generale in tutti quei luoghi in cui si svolgevano le cosiddette “professioni creative”.
A quei tempi eravamo ancora una minoranza, ma noi abbiamo conosciuto i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i lavori “a progetto”, “a chiamata”, il lavoro autonomo, il lavoro agile, il telelavoro, e tutte le forme di lavoro parasubordinato prima ancora che fossero inventate.
Siamo entrati in un mondo già mobile, già de-sindacalizzato e già quasi ripulito da ogni concetto di previdenza sociale, in luogo del quale si presentava nel migliore dei casi la possibilità di un sussidio di disoccupazione. Un mondo di orari flessibili e in cui gli straordinari non erano pagati semplicemente perché non esisteva il concetto di straordinario.
Abbiamo fatto un’esperienza anticipata della sorte che poi sarebbe toccata alla maggioranza dei lavoratori, anche a quelli che non hanno nulla a che fare con le “professioni creative”; e abbiamo barattato i nostri diritti di lavoratori con il privilegio di fare il mestiere che sognavamo di fare.
Eravamo insomma un’eccezione “consapevole”, e io non mi sarei mai immaginato che le mie precarie condizioni un giorno non troppo lontano sarebbero diventate la norma per un numero sempre crescente di lavoratori.

Qualche tempo fa ho cercato l’origine del termine inglese “free-lance”, divenuto ormai comune nell’odierno mondo del lavoro liquido e che identifica universalmente la figura del libero professionista. Non so perché ma pensavo che l’espressione avesse qualche significato metaforico.
Al giorno d’oggi infatti “lancia libera” è una traduzione che lascia perplessi, ma se la si fa risalire al Medioevo non ha proprio niente di strano: la “lancia” era quella del soldato professionista  che non combatteva per nessuna causa o bandiera, o meglio per tutte quelle che erano disposte a pagarlo. Un mercenario, insomma.
E’ dato per certo che il primo a usare il termine sia stato Walter Scott in “Ivanhoe”, nel passaggio nel quale un feudatario mette a disposizione le sue “lance libere” commentando così le sue truppe: “Grazie a questi tempi movimentati, un uomo d’azione troverà sempre un impiego”.
Anche quando, secoli dopo, il soldato di ventura è diventato il professionista autonomo che ha sostituito la lancia con la cassetta degli attrezzi o il laptop, si poteva vagamente rintracciare nella sua figura quell’alone da avventuriero a volte romantico, a volte senza scrupoli, ma sempre maestro nell’uso delle sue armi.

Ai tempi in cui lavoravo come assistente al montaggio in una casa di produzione milanese (ormai vent’anni fa) i free-lance del mestiere erano relativamente pochi, e la loro condizione era considerata prestigiosa, quasi un punto d’approdo. Poteva essere che qualcuno fosse più richiesto o stimato di un altro, ma in generale erano tutti professionisti specializzati, con una solida preparazione tecnica, abituati a lavorare nelle condizioni più disparate e a rispettare le consegne; in cambio di questa expertise il mercato, soprattutto quello pubblicitario, era disposto a pagarli più che dignitosamente.
Ma non era soltanto il loro talento che valeva l’ingaggio: per arrivare ad essere un free-lance bisognava aver accumulato esperienza, aver fatto un percorso di formazione sul campo. Chi li contattava poteva contare sul fatto che nessuno di loro  fosse privo di qualche referenza o fosse alle prime armi.
Io mi ero buttato soprattutto perché non avevo più alternative. Nessuno mi avrebbe dato il posto fisso, e alla fin fine nemmeno io lo volevo. Se fossi riuscito a prendere un po’ di lavoro avrei forse anche potuto guadagnare meglio lavorando meno (anche se comunque nel frattempo il mercato aveva approfittato del cambio generazionale per eliminare le tariffe generose di cui sopra). Certo, avrei dovuto adattarmi sempre, mettermi continuamente alla prova. Ma era anche l’unico modo di crescere liberi e sani in un ambiente non particolarmente libero e sano. E se non avesse funzionato, beh semplicemente non c’era un piano B.
Le cose sono andate bene, ci sono stati anni migliori e anni peggiori, ma sono riuscito a vivere del mio lavoro da free-lance. Mentre nel mondo “regolare” le aziende fallivano o delocalizzavano e lavoratori con contratti a tempo indeterminato cadevano come mosche, io passavo a cadenza giornaliera o settimanale dallo stato solido dell’occupazione a quello liquido della disoccupazione. L’indipendenza, il tempo ritrovato, la varietà dei progetti, gli stimoli e le gratificazioni, il fatto di essere responsabile solo per me stesso, sono tutte cose che hanno creato un certo tipo di rapporto col lavoro: mi sembrava di essere riuscito a realizzare un vecchio sogno liceale, quello di adattare il lavoro alla propria vita e non di essere costretto a fare il contrario.

Poi a un certo punto mi sono guardato in giro e qualcosa era cambiato:
ora c’erano più molte più mosche bianche che mosche nere.

Innanzitutto l’evoluzione tecnologica aveva in breve tempo “liberalizzato” i mezzi di produzione, facendo sì che chiunque fosse dotato di un computer potesse accedere ad un mercato professionale. Il mercato ha ovviamente accettato l’offerta di buon grado e la più immediata delle conseguenze è stata che oggi free-lance si nasce, non si diventa. Nessuna formazione o esperienza è più richiesta nè garantita; e questo non solo nel mondo del video o delle professioni creative.
Il crollo dei prezzi di produzione e la maggior concorrenza hanno frammentato il mercato e reso più ricattabili i lavoratori. Il telelavoro (come viene chiamato il lavoro svolto da casa) ha dilagato: i datori di lavoro risparmiano denaro e oneri vari, e il professionista ha la libertà di autogestirsi comodamente. Il che non significa lavorare meno però, anzi. Per esperienza personale lavorando da remoto si tende a dedicare in media dal 20 al 30% di tempo in più al lavoro rispetto a farlo in un ufficio (e aumenta anche considerevolmente la tendenza ad essere disponibili fuori orario, o nei weekend). Il tempo delle assunzioni, che prima si misurava in anni, ora si conta in mesi, in giorni, in certi casi in ore; i tempi di pagamento al contrario si allungano, anche quando le cifre sono esigue. La libertà, che nella libera professione era una scelta, ora è una condanna.

Come è stato possibile che il prototipo del free-lance da esempio di libertà ed emancipazione professionale si sia trasfigurato nel modello di sfruttamento prediletto dalle peggiori economie di mercato?

La risposta è relativamente semplice: la tendenza generale in atto nel mondo del lavoro è  trasformare il singolo in impresa. Meno ovvio e ancora più importante è comprendere che questa tendenza non riguarda solo un certo tipo di lavori e di lavoratori, ma sta fagocitando rapidamente un numero sempre maggiore di soggetti, prestazioni, servizi. Prendiamo ad esempio due tipologie emergenti come la gig economy (che qualcuno ha nominato “economia dei lavoretti”) e la sharing economy (economia di noleggio o condivisione).
Da un sondaggio tra i fattorini che collaborano con Foodora datato ottobre 2018 si evince che

i fattorini non sono più dipendenti di un’organizzazione centralizzata (generalmente il fornitore del cibo) ma sono liberi di consegnare oppure no, nel rispetto delle loro esigenze, attraverso l’intermediazione della piattaforma. Essi godono della piena autonomia relativamente a quando e come lavorare, e pertanto non possono essere qualificati come lavoratori dipendenti venendo meno il requisito dell’eterodirezione – ossia della subordinazione gerarchica.

In sostanza rientrano nella categoria dei lavoratori autonomi alla stregua di un giornalista, un web designer o un idraulico; una descrizione che tuttavia mal si sposa con la sentenza d’appello del gennaio 2019 che invece inquadra i rider come dipendenti del quinto livello del contratto collettivo logistica-trasporto merci e che addirittura riconosce loro tredicesima, malattie pagate e ferie, così come mal si sposa alla recente cessione di Foodora alla spagnola Glovo che di fatto è libera da ogni obbligo nei confronti dei nuovi collaboratori. Non sorprende che il suddetto sondaggio sia a cura dell’Istituto Bruno Leoni, nato nel 2003 con lo scopo di promuovere le “idee per il libero mercato”.
L’individualizzazione dell’impresa si può rintracciare anche nella sharing economy di Uber, BlaBlaCar o Airbnb, anche se solitamente queste non si possono considerare economie di sussistenza. Ma esprimono magnificamente il meccanismo di imprenditorializzazione del privato, quella forma di autogestione dell’individuo basata sui processi economici che ricorda la teoria del capitale umano di Foucault.

La lacuna più tragica delle politiche sul lavoro degli ultimi vent’anni è stata proprio la mancata comprensione di questo fenomeno, che ha portato a un’interpretazione deviata dei problemi occupazionali e del precariato: l’operaio che ha perso il lavoro, l’operatore interinale del call-center ed il professionista  autonomo non vanno trattati come soggetti appartenenti a pianeti così diversi. Vi sono, certo, notevoli distinzioni tra gli ambiti professionali, ed è giusto considerare che per alcuni l’autonomia rappresenta una scelta mentre per altri è un obbligo. Ma non è corretto considerare le loro problematiche con un’urgenza diversa, ed è ingiusto supporre che richiedano forme di protezione diversa.
Una politica che abbia un’aderenza alla realtà deve mettere in relazione questi fenomeni per evitare ulteriore diseguaglianza e isolamento sociale. Perchè non soltanto sono accomunati da rapporti di lavoro provvisori e non garantiti: sono soprattutto accomunati dal fatto di essere estranei ad un mondo del lavoro collettivizzato e tutti indirizzati a diventare “imprenditori del sè”. Come imprenditori, devono vincere la concorrenza, devono assumersi la responsabilità dei rischi e dei fallimenti; e devono seguire un’unica legge, quella del mercato. Come dipendenti, devono realizzare il prodotto, essere flessibili su disponibilità e compensi ed essere pronti a rinunciare a tutele e previdenze.

La condizione in cui queste due figure antitetiche si riuniscono in una sola (che dal punto di vista del soggetto più che a una forma di unione conduce piuttosto a una sorta di sdoppiamento della personalità) è merce particolarmente succulenta per il capitale: le necessità di una parte soffocano automaticamente le rivendicazioni dell’altra, e viceversa.
Non è soltanto il lavoro ad essere individualizzato, ma tutto il suo portato sociale, economico, burocratico. Imprenditorialità, welfare, lotta di classe non sono più elementi a carico della società ma del singolo. Trasferendo impresa e lavoratori nello stesso corpo ecco che il neoliberismo globale ha finalmente plasmato il proprio lavoratore ideale: senza diritti, sempre disponibile, ricattabile e sostituibile in ogni momento.
La definizione del concetto di precariato va quindi riscritta. Nella sua versione più moderna non descrive tanto la situazione di incertezza e provvisorietà lavorativa, quanto lo stato di imprenditorializzazione del lavoratore: la condizione che si viene a creare quando lavoratore e impresa sono la stessa figura.
Nel prossimo articolo cercherò di approfondire l’argomento con l’aiuto di qualcuno che su questo tema ha da poco pubblicato un libro.