ENTREPRECARIAT (sottotitolo: Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro.) è il titolo del libro scritto da Silvio Lorusso, ricercatore e designer italiano che attualmente fa base nei Paesi Bassi, ed edito da Krisis Publishing. Il termine è un azzeccato neologismo che mescola “entrepreneurship” e “precariat”, ovvero imprenditorialità e precariato, e che ben rappresenta il modello sociale ed economico che sta imperando nel mondo del lavoro: rendere il singolo un imprenditore di se stesso, sfruttando la possibilità di rendere mercificabile qualsiasi aspetto della propria vita, estremizzando la competizione ed atomizzando spazi, tempi e modalità lavorative.
Un fenomeno che certamente è in costante espansione da quasi un trentennio, ma le cui radici arrivano da più lontano e che Lorusso rintraccia nel pensiero di economisti come Joseph Schumpeter, Lujo von Brentano e Peter Drucker; e in tempi più recenti nel lavoro di Richard Sennett, Guy Standing, Alex Foti, Raffaele Alberto Ventura. Senza tralasciare gli attori protagonisti del nuovo culto del naturalismo imprenditoriale, i vari Elon Musk, Jeff Bezos, Muhammad Yunus (proprio quest’ultimo ebbe a dire che “tutti gli esseri umani sono imprenditori. Quando vivevamo nelle caverne, eravamo tutti lavoratori autonomi”).
L’analisi di Silvio non teme il confronto con quella dei suoi illustri predecessori, anzi contribuisce ad espandere e a mettere ulteriormente a fuoco l’argomento servendosi di un incedere lucido, incalzante e sintetico.
Ma soprattutto ponendo la questione dell’ “imprendicariato” in diretto confronto con il sistema mediatico che ne alimenta la portata, ne istituzionalizza il linguaggio e ne forgia il sistema di valori, creando una spirale alla quale diventa impossibile sfuggire: “imprenditorialità genera precarietà che a sua volta esige imprenditorialità”.
L’idea, insomma, è che la narrazione del precariato vada ben oltre il tema del lavoro.
Avvalendosi anche di una curata veste grafica Lorusso ci accompagna quindi in un mondo dai tratti iperreali fatto di magazine per teen-ager in carriera, app che aumentano la produttività o regolano i tempi di lavoro, uffici portatili, manuali per l’auto-aiuto e il pensiero positivo: senza trascurare le ambiguità e i rapporti di causa-effetto insiti in certe dinamiche sociali, getta luce su una realtà in cui da una parte vige la celebrazione dell’intraprendenza, dall’altra il proliferare di una nuova miseria umana. Forse nulla rappresenta meglio i confini dell’ “entreprecariat” della popolazione che affolla Fiverr, il social sul quale tutti possono vendere una prestazione (di qualsiasi tipo, dal design di un sito web alla registrazione di un messaggio di buon compleanno), e delle campagne di crowdfunding “personale” di GoFundMe o YouCaring, nelle quali si raccolgono fondi per pagarsi stage non retribuiti o addirittura cure mediche o trapianti di organi.
Ecco quindi riaffacciarsi il bisogno di ridefinire il concetto di precariato in chiave più ampia, svincolandolo da certe categorizzazioni politico-mediatiche e magari utilizzandolo come grimaldello per scardinare preconcetti che ostacolano la visione di un futuro che non sia (per usare un’espressione del fondatore di LinkedIn Reid Hoffman) in “beta permanente”.
Per approfondire il tema ho contattato Silvio che ha gentilmente acconsentito a rispondere a qualche mia domanda.
Com’è nata l’idea di scrivere “Entreprecariat”?
Il libro è la raccolta di una serie di testi pubblicati sul blog omonimo.
Ciò che mi ha spinto ad aprire il blog è stata la curiosità nei confronti della democratizzazione dell’imprenditorialità promossa da servizi come Kickstarter. Il crowdfunding è la perfetta incarnazione di un’imprenditorialità fai-da-te, secondo cui basta una buona idea per “farcela”. Scoprendo che la logica di Kickstarter era utilizzata per rimediare a disgrazie personali e calamità collettiva mi sono reso conto che l’imprenditorialità diffusa è il riflesso della precarizzazione, una specie di risposta immunitaria. Questa idea non è particolarmente originale: diversi autori hanno avuto la stessa intuizione, ma a quanto ne so sono il primo ad averci dedicato un libro intero.
Nel libro torni spesso, attraverso vari esempi, sul rapporto di interdipendenza tra imprendicariato e reti digitali. Queste ultime alimentano l’imprenditorialità selvaggia e l’alienazione che ne consegue; allo stesso tempo però il lavoratore autonomo è sempre più obbligato a sfruttare la rete, che si tratti di produrre e promuovere il proprio lavoro o di sbrigare la burocrazia. Esiste un modo di trasformare questo rapporto in un circolo virtuoso oppure la disconnessione è l’unica via di uscita?
La disconnessione non è una via d’uscita, è piuttosto il privilegio di quei pochi che non hanno bisogno di agire strategicamente online. Detto ciò, esistono luoghi nella rete che provano a sottrarsi alla logica agonistica delle piattaforme dominanti. Penso ad esempio a 4chan dove, nel bene e nel male, regna l’anonimato. O più prosaicamente a social media alternativi come Mastodon, dove la quantificazione dell’”engagement” è molto meno rilevante che su Twitter. In generale mi sento di dire che il web, riflettendo la logica imprendicaria, offre sempre meno occassioni di gratificazione duratura. Abbiamo bisogno di un web diverso, che sia gratificante almeno quanto quello di qualche decennio fa.
In un passaggio scrivi che “piuttosto che offrire un rifugio dalla logica imprenditoriale, gli ambienti digitali ne amplificano spesso le dinamiche. Piuttosto che riparo dal governo, Internet è palestra di autogoverno.” Quanto a tuo parere l’indaffaratezza generalizzata, il “tempo libero ma non liberato”, affondano le radici nel lavoro e quanto nel dilagare del digitale?
Non credo ci sia dubbio sul fatto che il digitale abbia contribuito a incrementare l’indaffaratezza. Lo smartphone è tante cose, tra queste un ufficio che ci portiamo sempre in tasca. Dato che un’inversione di rotta tecnologica è improbabile, quello che ci vuole è una svolta culturale che riconsideri la sacralità del lavoro.
Nell’imprendicariato il tempo domina lo spazio. Come via di fuga dall’ansia che ne consegue suggerisci di invertire i poli di modo che sia lo spazio a modulare il tempo. Puoi illustrarmi meglio questo concetto?
Uno spazio organizzato dal tempo è l’aeroporto: si tratta di uno spazio condizionato da temporalità esterne a esso. Uno spazio che modula il tempo è la chiesa: appena ci si mette piede si ha la sensazione di accedere a un ambiente che vive di una temporalità propria. Non sto dicendo che abbiamo bisogno di più chiese, ma di spazi che funzionano come chiese.
“Flessibilità” e “adattabilità” sono da sempre due principi cardine del lavoro autonomo. Come evitare che si traducano in un gioco al ribasso che scambia la propria indipendenza con lo sfruttamento e la competizione imposta dal mercato?
Non saprei, non sono in grado di suggerire soluzioni. Il mio libro si concentra più sull’aspetto retorico che su quello politico dell’adattabilità, della flessibilità e dell’autonomia. Ciò che ho provato a sottolineare è la radice platealmente ideologica di un certo modo di parlare del lavoro e della professione: “flessibilità”, “boss di se stesso”, “apprendimento continuo”, “bootstrapping” e via dicendo sono espressioni che andrebbero accolte con sospetto.
Nel suo libro “Postcapitalismo” Paul Mason sostiene che ciò che differenzia il ciclo capitalistico che stiamo vivendo da quelli che lo hanno preceduto è il fatto che ogni resistenza dei lavoratori sia stata sconfitta. Pensi che il precariato potrà trasformarsi in una classe a sè stante? E che tipo di influenza potrebbe esercitare sul ciclo economico/politico?
Mi limito a dire che l’urgenza imprenditoriale è uno dei principali ostacoli allo sviluppo del precariato come classe per sé. Rivendicare apertamente la propria appartenenza al precariato, confondersi nel “noi”, confligge con la distinzione su base individuale imposta dal gioco imprenditoriale. L’io promozionale nega il noi antagonista.
Piattaforme come Fiverr estremizzano la tensione culturale tra “imprenditore agile ed élite burocratica”. Dobbiamo aspettarci un populismo imprendicario? E se sì, è un pericolo o un’opportunità?
Principalmente un pericolo direi. L’imprenditore agile di Fiverr è semplicemente occupato, indaffarato, incasinato. Non solo: è orgoglioso di esserlo. L’imprenditore agile è l’ennesimo omaggio a un’etica lavorativa cieca che somiglia a un castigo.
Settimana lavorativa più corta e reddito di base universale: due idee che stanno prendendo sempre più piede nel dibattito sul futuro del lavoro, nonché nella narrazione di una possibile società post-lavorista. La tua posizione a riguardo?
Ritengo che la settimana lavorativa di 4 giorni (e pagata come 5) sia una delle idee più plausibili, eleganti e legittime tra quelle che circolano al momento. Per quanto riguarda invece il reddito di base universale, credo che da una parte offra carburante utopico a una sinistra che ne ha disperato bisogno, ma dall’altra ho una serie di dubbi sulla sua implementazione (ad esempio, come evitare che una misura del genere non rinforzi i confini nazionali?). Ciò che è certo è che parlare di reddito di base universale permette di parlare di lavoro al netto di una serie di pregiudizi storici e modelli mentali obsolescenti.
inizia a essere un blog di spessore… la prossima intervista sandro mele!
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