Sabato 20 Aprile scorso la Juventus ha vinto il suo ottavo scudetto consecutivo.
Non si era mai verificato in precedenza che, nella ormai più che centenaria storia del calcio italiano, una squadra arrivasse a una simile sequenza di successi. Il distacco sugli altri “competitor” si è dilatato in un vero e proprio dominio incontrastato ed è stato schiacciante nelle statistiche, con numeri che non lasciano spazio ad interpretazioni.
Si può anche pronosticare, senza grossi rischi di essere sconfessati, che questo dominio resterà una costante anche per i prossimi anni. Le stesse altre partecipanti al campionato italiano di serie A sembrano ormai adeguarsi a questa inviolabile supremazia e si pongono obiettivi alternativi alla vittoria finale, accontentandosi di una dignitosa sopravvivenza agonistica nel tentativo di non disperdere eccessivamente l’interesse dei tifosi.

Questa polarizzazione delle vittorie sportive nel calcio italiano è una novità.
Se è vero che ultimi 15 anni solo 3 squadre hanno vinto il campionato di serie A (Juve, Inter e Milan), nei precedenti 15 anni le squadre vincenti erano state il doppio (6) e dal 1998 al 2001 ogni anno il titolo di campione d’Italia era stato vinto da una squadra diversa (Juve, Milan, Roma e Lazio). Questi semplici dati sembrano confermare una tendenza che appare comune nei tornei calcistici dell’Europa che conta (Germania, Inghilterra, Spagna e Francia) con una radicalizzazione dei risultati sportivi nelle mani di poche società calcistiche.
Quali le ragioni di questa radicalizzazione?

Il calcio ha assunto un ruolo fondamentale sia nell’industria dello spettacolo, di cui rappresenta il 35% dei volumi d’affari, sia come business in assoluto, con fatturazioni per 4,5 miliardi di euro e investimenti che lo collocano al terzo posto come settore economico italiano in ambito M&A (fusioni, acquisizioni, incorporazioni). L’industria calcio occupa direttamente 40mila persone e, nel suo complesso, genera un indotto economico stimato in 18,1 miliardi di euro all’anno. Alcune delle più importanti società calcistiche sono quotate in borsa.
La proprietà delle società calcistiche è stata sino ai primi anni del 2000 un fatto che riguardava quasi esclusivamente grandi industriali, petrolieri, Tycoon della comunicazione e ricchi commercianti. Figure assimilabili ai mecenati rinascimentali, munifici possessori di ingenti capitali e tutti appassionati della nobile arte la cui musa, invenzione di Gianni Brera, è la dea Eupalla.
A sparigliare il mazzo è intervenuta prepotentemente l’UEFA, l’ente calcistico europeo che fa capo a tutte le federazioni calcistiche nazionali, che ha introdotto nel 2011 un nuovo regolamento (Financial Fair Play) sulla gestione economica delle società calcistiche europee, con l’intenzione di stimolare l’auto-sostenibilità finanziaria ancorando i debiti delle società ai ricavi, promuovere l’investimento in infrastrutture (stadi), incoraggiare la crescita dei settori giovanili e razionalizzare i costi degli ingaggi e dei trasferimenti.

Limitando l’indebitamento ad un livello direttamente proporzionale ai ricavi, l’UEFA ha di fatto messo fuori gioco i mecenati del calcio che usavano spostare liquidità dalle proprie aziende alle società calcistiche di cui erano azionisti di maggioranza.

L’effetto economico era di ridurre l’attivo delle aziende di famiglia, e quindi la tassazione diretta, prestando denari alla società calcistica ma mantenendo nel contempo la titolarità del debito che, in caso di vendita, sarebbe stato poi rimborsato dal nuovo proprietario del club di calcio. Con le nuove regole, l’azionista deve ripianare i debiti iniettando capitale che viene quindi consumato con l’attività finanziaria e non deve più essere restituito.

L’effetto della crescita economica dell’industria calcio, la necessità di allestire squadre competitive sia sul fronte nazionale che continentale, l’incremento dei costi per la campagna acquisti e l’incremento degli stipendi dei calciatori “top player”, nonché la necessità di ottemperare ai dettami del FFP, ha reso accessibile la proprietà delle maggiori squadre di calcio continentali alle sole ricche aziende multinazionali, ai fondi di investimento internazionali e ai fondi sovrani, soprattutto dei paesi arabi.
Questi soggetti economici posseggono i capitali, gli skill e le strutture aziendali per vendere efficacemente il marchio della squadra di calcio e ottenere in cambio laute sponsorizzazioni, lanciare sul mercato finanziario prestiti obbligazionari a prezzi vantaggiosi, investire nelle infrastrutture (tipicamente la costruzione degli stadi di proprietà) influenzando in positivo i ricavi dei biglietti venduti, fare lobbying con le altre società calcistiche per incrementare i proventi dei diritti televisivi. Va da se che per appetire i mercati finanziari, le televisioni tematiche, le aziende a caccia di un veicolo pubblicitario che mostri il proprio brand accanto ad un logo di prestigio, occorre essere una società calcistica che abbia visibilità sportiva, faccia risultati, annoveri in squadra campioni e conti qualche milione di tifosi a livello nazionale e nel mondo.

Tutto ciò ha aperto ulteriormente il già sensibile gap tra le maggiori società e le cosiddette provinciali, creando una vera e propria élite calcistica europea.

In Italia la Juventus è la società che più di tutte ha colto i cambiamenti in atto.
Da squadra di mecenati si è reinventata partecipazione produttiva di una importante società d’investimento, la Exor, peraltro sempre controllata dalla Famiglia Agnelli con circa il 64% delle azioni, acquisendo con successo importanti sponsorizzazioni, costruendo un nuovo stadio, guadagnando il massimo dai diritti televisivi.
Grazie ai suoi risultati sportivi, accumula introiti derivanti dalla partecipazione alla Champions League (due finali negli ultimi 5 anni) e la qualità dei suoi calciatori consente di incassare plusvalenze all’atto della loro vendita nella campagna acquisti. Il combinato disposto di tutte queste fonti di reddito ha portato i ricavi bianconeri nel 2018 a 407 Mln di Euro, distanziando la seconda squadra, l’Inter con 260 mln, del 36%.
Pur nella convinzione che la società Juventus possegga manager di primordine, è la consistente capacità di spesa che ha consentito ai bianconeri di acquistare quello che probabilmente è il migliore calciatore del mondo, Cristiano Ronaldo. E pur se quest’anno Ronaldo non ha portato la vittoria nella Champions League, la sua presenza è stata fondamentale nella conquista dello scudetto.

Da quanto sopra, si evince che è proprio l’essere una squadra vincente a creare i presupposti per continuare a vincere. E allora, come si può fermare questa spirale, virtuosa per gli juventini ma maligna per tutti gli altri tifosi e probabilmente per la imprevedibilità e l’attrattiva del calcio italiano?

Si potrebbe, per esempio, guardare in casa della National Football League statunitense, dove esiste un sistema di ripartizione dei ricavi molto più equilibrato rispetto alle regole del calcio europeo. Ogni società riceve dalla Lega Nazionale una quota molto simile di revenues commerciali, diritti televisivi, licenze da prodotti sponsorizzati e merchandising. Quindi è la NFL che introita tutti questi ricavi, indipendentemente da quale franchigia provengano, e li ridistribuisce in modo più equo. Ogni singola franchigia lavora poi per aumentare i propri incassi con strategie personalizzate, spesso legate agli stadi di proprietà.
Inoltre esiste un “salary cap” che ha la funzione di ridurre al minimo le possibili disparità di salari tra i giocatori nonché livellare le differenti capacità di spesa delle singole squadre.

Se le federazioni calcistiche europee applicassero queste due semplici regole, nel giro di qualche anno i risultati economici delle aziende calcistiche diventerebbero più omogenei con benefici per tutto il movimento calcistico.

Ma esiste qualche possibilità che ciò avvenga?
Secondo me, è altamente improbabile.
Il calcio non sfugge alle logiche che regolano l’economia in tutti gli altri settori, dove la polarizzazione della ricchezza nelle mani di pochi soggetti è il frutto dello straripante fondamentalismo della crescita economica, dottrina colpevole di aver spazzato via gli argini che le politiche di welfare avevano eretto dal dopoguerra in poi per incoraggiare una migliore distribuzione della ricchezza, creando la novità assoluta, per la dottrina sociale, di un ceto medio forte e numericamente in maggioranza.
Dominique Bourg, Michel Richard e Floran Augagner, scrivendo per “le Monde” del 2 Aprile del 2011, concludono il loro articolo con una sentenza che sembra un epitaffio per tutta la civiltà dei “lumi”: “le diseguaglianze planetarie attuali avrebbero fatto arrossire di vergogna gli inventori del progetto moderno, Bacone, Descartes o Hegel”.

Queste dichiarazioni forti hanno ragione di esistere quando si analizzano i numeri.
Per citare una fonte attendibile e sopra le parti, l’Istituto di Ricerca dell’Università dell’ONU ha calcolato che l’1% della popolazione adulta nel 2000 possedeva il 40% di tutte le risorse del pianeta. Il 10% della popolazione più ricca ne possedeva l’85% mentre il 50% più povero doveva spartirsi un residuo 1%. E stiamo parlano di una fotografia fatta quasi vent’anni fa.
La spirale della diseguaglianza economica ha continuato negli anni la sua opera di erosione del ceto medio aumentando il numero dei classificati sotto la soglia di povertà. L’Organizzazione Mondiale del Lavoro ha calcolato che oltre tre miliardi di esseri umani vivono con soli 2 dollari al giorno. La crisi economica del 2007/2010 ha ulteriormente divaricato la forbice a favore dei più ricchi.

Tornando al calcio, c’è un ulteriore fatto che accomuna le società calcistiche a tutte le altre società dei settori commerciali, industriali e finanziarie: l’azione di lobbying presso le istituzioni che sovraintendono ai regolamenti. E’ di poche settimane fa la notizia, diffusa da l’Espresso, che annuncia l’avvio del negoziato tra l’Uefa e le maggiori squadre europee, rappresentate da Karl Heinz Rummenigge e Andrea Agnelli, per la costituzione di una superlega di calcio. Questa superlega darebbe vita ad un campionato continentale che includerebbe solo le più importanti squadre europee, le quali lascerebbero i tornei nazionali. Gli introiti di questo nuovo campionato sono stimati in 900 milioni di euro. Sarebbe la pietra tombale per i campionati di calcio nazionali, che vedrebbero ridurre l’interesse delle televisioni, degli sponsor e degli spettatori con la conseguente riduzione dei ricavi e, in ultima analisi, della loro competitività sportiva.
Analogamente le imprese più importanti del mondo, particolarmente quelle dei settori digitale, energetico e finanziario, hanno allestito intere divisioni con a disposizione budget importanti per “interfacciare” i deputati europei e intervenire nella stesura delle direttive del parlamento.

Osservato questo fenomeno, possiamo dire il che calcio si sta evolvendo e che questo è un dato di fatto inoppugnabile. E’ un peccato che, in quanto gioco popolare per partecipazione e cultura, per farlo emuli le dinamiche più perverse della società capitalista. Con questo ci stiamo perdendo gli sfottò tra tifoserie vicine di casa, il bar sport sempre accalorato di discussioni sui massimi sistemi calcistici, la sana ansia e l’allegria che accompagna i piccoli grandi eventi sportivi che vedono le provinciali confrontarsi con le corazzate del calcio professionistico.

Mettere un freno a queste dinamiche perverse nel calcio vuol dire quindi cercare di frenare le attuali dinamiche dell’economia in generale ed è a mio parere un problema di consapevolezza e di cultura di massa. Finché non sarà chiaro che la ricchezza di pochi non avvantaggia, ma al contrario mina il residuo e limitato benessere dei molti, poco potrà essere fatto per sostituire l’imperante competitività senza quartiere, la folle segregazione, la rivalità esacerbata e l’indifferenza verso la sorte dei più deboli con la cooperazione amichevole, la fiducia nel prossimo e la condivisione più equa delle risorse. Anche gli stessi tifosi juventini dovranno prima o poi rendersi conto che le inarrivabili vittorie della loro squadra sono una sconfitta, in senso lato, della nostra società civile.

Maurizio Mambretti, da poco più di un anno in esodo anticipato dopo 40 di lavoro presso la stessa multinazionale della finanza, finalmente può dedicare più tempo a suonare, leggere, scrivere e vedere film al cinema. Sempre da dilettante, ma con passione.