Qualche settimana fa Paul McCartney ha annunciato l’uscita di una nuova canzone dei Beatles, adattata ricostruendo la voce di John Lennon con l’utilizzo di algoritmi di Intelligenza Artificiale.
L’annuncio, oltre a mettere in fibrillazione i fans dei Favolosi 4, ha indotto numerosi dibattiti sulle frontiere che l’IA sta velocemente attraversando e sulle possibili conseguenze che l’uso delle macchine potranno produrre nella realizzazione di opere creative, musicali nello specifico.
Sinora la creazione di musica è stata prerogativa peculiare del genere umano e questo inatteso sviluppo delle capacità tecnologiche dei computer mi ha portato a domandarmi: un algoritmo prodotto da un software, che può ricostruire la voce di un cantante, sarà in grado nel futuro di generare ciò che è stato creato da un gruppo come i Beatles?
In altre parole: l’IA che oggi imita perfettamente ciò che già esiste, domani sarà in grado di inventare qualcosa di così originale da definire un nuovo canone artistico di valore epocale?
Entrare nel merito del futuro delle tecnologie di IA è argomento difficile. Scorrendo articoli e analisi sul web l’unica cosa certa è che non ci sono certezze granitiche e molto resta ancora nebuloso, con un enorme carico di aspettative con confini ancora da definire, ma anche foriero di inquietudini e serie preoccupazioni di ordine etico e economico.
Proverò perciò a dare una mia risposta basandomi sull’esperienza diretta di fruitore di musica e di musicista dilettante, cercando di capire se è plausibile immaginare uno sviluppo dell’IA sufficiente ad emulare pienamente la creatività umana.

Da quando ho iniziato ad immagazzinare ricordi, la musica è una costante quotidiana della mia vita, una compagnia necessaria e insostituibile. Già a quattro anni, per ascoltare i vinili, maneggiavo con la dovuta perizia la fono-valigia con marchio Reader’s Digest che mio padre aveva acquistato a inizio degli anni ‘60. Pur non sapendo ancora leggere, ero comunque in grado di gestire in autonomia l’ascolto, distinguendo le canzoni contenute nei dischi dal disegno dell’etichetta e dalla lunghezza del titolo. Passavo così tanto tempo davanti al giradischi che qualcuno incominciò a obiettare che forse tutto ciò era fuori dalle sane abitudini normotipiche di un bambino medio. Quindi, consultato il medico, mi venne diagnosticato un disturbo compulsivo e vietato l’ascolto del giradischi al di fuori di orari contingentati.
Per fortuna la musica stava radicalmente cambiando per tutta la mia generazione.
Era il 1963 e un’amica di mia sorella si presentò a casa portando un disco intitolato “Please Please Me” dei Beatles.
E’ stato uno di quei momenti spartiacque, una sliding door dove ciò che accade modifica il corso della vita. Credo che quello sia stato il momento preciso in cui mi accorsi che la musica sarebbe diventata una compagnia per la vita e in cui decisi che non avrei mai più permesso a nessuno di impedirmi di viverla pienamente. Così, ho passato tutti gli anni ‘60 studiando l’indispensabile per la scuola, limitando i rapporti sociali all’essenziale per non essere espulso dal consesso amicale e indugiando il giusto nelle attività fisiologiche di sopravvivenza. Tutto il resto del tempo era dedicato all’analisi di ogni dettaglio, più che al semplice ascolto, delle canzoni dei Beatles.
E’ stato così che ho incominciato a comprendere che la musica si poteva vivere anche da protagonisti, non solo da ascoltatori. Se quei quattro ragazzi di Liverpool, pur privi di studi classici e di ogni nozione di teoria musicale, suonavano e componevano musica strabiliante, ma perché mai non potevo farlo anch’io? E’ una domanda che, secondo me, si è posta un’intera generazione, ed il risultato è stata la qualità, l’originalità e la longevità della musica prodotta in quegli anni.

La necessità di esorcizzare la fine dei Beatles come gruppo mi ha convinto nel 1972 a comprare la prima chitarra elettrica (marca HB, modello Telecaster, 90 mila lire alle Messaggerie Musicali di Milano) e imparare in tutta autonomia a strimpellare qualche accordo e iniziare a scrivere le mie prime adolescenziali, amatoriali, pretenziose e goffe canzoni.
Ma al contrario di John&Paul, il buon Dio e il mio corredo genetico mi hanno negato orecchio musicale, attitudine tecnica o talento particolare per l’arte della dea Euterpe. Così, come negli anni ‘60 mi obbligavo testardamente a scoprire ogni sfumatura delle canzoni che ascoltavo, è stata la passione indomita e la voglia di faticare ore e ore sugli strumenti, che mi ha permesso comunque di inseguire il sogno di suonare ed esprimerlo attraverso capacità faticosamente costruite.
Negli anni è venuto spontaneo domandarmi quale alchimia crei quel legame misterioso tra essere umano e musica. Ho letto libri su questo argomento, ho discusso con amici musicisti, ho raccontato il mio percorso musicale ad uno psicoterapeuta (che peraltro ha escluso in me ogni traccia di comportamento compulsivo, ossessivo o comunque patologico relativo alla musica). Rispondere a questa ulteriore domanda è il viatico per affrontare con qualche possibilità di successo la domanda posta all’inizio.
Dunque: cosa lega l’uomo e la musica?
Pur se ho amato più i romanzi di Ian Fleming, che svelano subito l’assassino, di quelli di Agatha Christie, che rivelano il colpevole solo alla fine, mi corre l’obbligo di fare tre piccoli passi di premessa:
1) Se naufragassi su un’isola deserta, il film che vorrei portare con me è “Nuovo Cinema Paradiso”. Verso la fine della pellicola al protagonista, diventato un regista famoso, viene concesso di entrare nel Cinema Paradiso pochi minuti prima che la sala sia demolita. Ondate di ricordi investono il personaggio, ogni sguardo agli arredi abbandonati diventa un’esperienza composita di dolce nostalgia del passato e di amara consapevolezza del presente. Ho rivisto questa scena senza musica: la performance dell’attore diventa quasi farsesca, è come se il legame emotivo con il narrato si smarrisse e restasse solo un uomo che si aggira in uno spazio decadente facendo strane smorfie. Ho riacceso l’audio e la musica di Morricone ha restituito ogni sfumatura di emozione e significato espressivo alla recitazione. E’ come se la musica costruisse un ponte tra il vissuto del personaggio e la sensibilità dello spettatore, coinvolgendo ogni cellula di emotività e caricando di significato compiuto i gesti della recitazione.
2) Quando ascolto l’allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven, se sono contento vengo trasportato in uno stato di incontaminabile felicità, se sono triste mi afferra l’angoscia, la nostalgia si traveste da cupa e spessa malinconia. E’ come se ogni sensazione fosse frullata dalle note musicali in un amplificatore di sentimenti e mi fosse restituita più larga, più alta e più profonda.
3) Ho partecipato a 4 concerti di Paul McCartney e ne ho visti tantissimi su DVD e su Youtube. L’eterogeneità del pubblico in termini di età, classe sociale, provenienza territoriale ed educazione culturale è una costante assoluta. E’ come se la musica fungesse da fil rouge tra le persone, unico vero collante che supera ogni barriera generazionale, sociale e culturale. Consentendo a ognuno di partecipare sentendosi protagonista, ma anche facendosi cullare dalla sensazione di far parte di qualcosa che misteriosamente unisce in un potente sentire collettivo.
La musica sembra appartenere a una categoria che sfugge ad ogni vincolo e ristrettezza. Pare composta da messaggi universali il cui paradigma
non necessita di mediazioni socio-culturali.
La musica amplifica e indirizza le sensazioni che trasmette in modo diretto, perché ogni essere umano possiede i giusti ricettori per comprenderla e farla propria. I messaggi che convoglia raggiungono una “sfera profonda” presente in tutti, ma unica in ognuno. E’ questa “sfera profonda” l’origine ed il fine ultimo, perché la sua presenza, o meno, discrimina tra due opposte visioni: l’essere umano diverso dagli altri animali solo in quanto specie a parte, oppure l’uomo differente da ogni altro essere vivente in quanto capace di trasformare l’esperienza in pensieri simbolici e trasmetterli attraverso l’arte. Chi ritiene che questa sfera esista, può darle il nome che preferisce: coscienza, anima, psiche, intelligenza artistica o altro. Ma qualunque cosa sia, la musica è il driver perfetto per snidare e scoperchiare l’antro in cui è nascosta, mostrando la strada che conduce alla consapevolezza che siamo più di quanto possiamo vedere e toccare.
Cosa sia, dove nasca e quale senso abbia questo “più” è una questione per me ancora aperta e credo continuerà ad esserlo. Di certo testimonia che è ragionevole prendere in considerazione l’esistenza di qualcosa che vada oltre la pura materia.

E a questo punto posso ritornare alla domanda iniziale: l’IA riproduce l’interpretazione vocale di John Lennon, ma può verosimilmente eguagliare quella che è stata la sua capacità di creare opere musicali?
L’Intelligenza Artificiale impara interagendo con le istruzioni che le vengono impartite dalla conoscenza, dall’esperienza e dalla sensibilità generata dall’uomo ed è in grado di riprodurre alcune caratteristiche dell’intelligenza umana: ad esempio, ci sono robot che imitano atteggiamenti esteriori coerenti alle situazioni, come sorridere o piangere. In alcune attività è già possibile ottenere capacità significativamente superiori all’uomo, segnatamente laddove per prendere una decisione occorre confrontare una enorme mole di dati in tempi brevi o compiere rapidi ed efficienti interventi di precisione in una catena di montaggio.
Nonostante alcuni scienziati affermino che in futuro le macchine potranno riprodurre il pensiero umano, ad oggi è stato verificato che solo la parte razionale del pensiero umano è trasferibile alle macchine.
In base a ciò, si può affermare che tutto ciò che nell’essere umano nasce in ambiti diversi dalla capacità intellettiva razionale non è trasferibile ad una macchina. Quindi, postulando vera l’esistenza di questa “sfera profonda” non assimilabile alla materia, per l’uomo è impossibile definirla e per le macchine impossibile riprodurla. In altre parole, seguendo questa logica, pensiero razionale e atto creativo restano confinati in due diverse dimensioni, il primo descrivibile e trasmissibile alle macchine, il secondo confinato nel mistero dell’esistenza umana, mistero che le neuroscienze, pur approfondendo la relazione tra cervello, mente e pensiero, hanno definito come talmente complesso da non poter essere inglobato in un algoritmo e trasmesso alle macchine.
La risposta alla domanda iniziale non può dunque che essere negativa. L’IA è destinata a supportare le decisioni umane riducendo tempi e margini di errori, a gestire processi in modo ottimale, ad efficientare e migliorare le organizzazioni, a costruire modelli previsionali sempre più precisi, a creare sistemi virtuali biologici dove simulare l’effetto di farmaci e terapie, ad assistere soggetti deboli con robot antropomorfi.
Sono contributi essenziali che se ben programmati e gestiti potranno aprire orizzonti oggi impensabili a beneficio dell’uomo e del pianeta, ovviamente purché siano risolti con rispetto, parità e giustizia i conseguenti problemi etici, economici e legali. Ma difficilmente potrà sostituirsi all’uomo nella più profonda e intima delle sue caratteristiche: creare con un’intuizione un intero universo di sensazioni.
Forse domani potremo registrare le nostre canzoni simulando la voce di John Lennon, oppure addirittura vedere un film già uscito sostituendo il volto e la capacità interpretativa di un attore. Ma non potremo schiacciare un tasto e creare la nuova “Please Please Me” e cambiare il corso della storia della musica.
E questa considerazione, oggi, mi fa sembrare il mondo più umano.
Maurizio Mambretti ha lavorato per più di 40 anni presso una nota multinazionale della finanza. Ora, finalmente, può dedicare più tempo a suonare, leggere, scrivere e guardare film.