…ZZZOTT!

E’ l’estate del 1995 e io e il mio amico Sergio siamo in anticipo di almeno trenta minuti.
Ci sediamo sull’erba di uno spiazzo verde preso d’assedio dal traffico milanese, nell’attesa che arrivi l’ora. Nello zaino abbiamo una bobina Super-8 fresca di stampa. Sono ormai diverse settimane che abbiamo finito di girare il nostro primo cortometraggio, prodotto, scritto e realizzato insieme ad altri tre amici appassionati di cinema.
La storia è un guazzabuglio di idee e situazioni che ruotano attorno a un libro che passa di mano in mano tra vari personaggi, interpretati da attori per il quale il termine “presi dalla strada” è un complimento: parenti, amici, professori, tutti quelli che siamo riusciti a imbarcare nell’impresa. La scrittura, avvenuta in numerose sedute animate di spleen socialdemocratico, è stata resa ancora più fumosa dall’abuso di droghe leggere.
Su una cosa non c’è mai stata discussione alcuna: questo film s’ha da fare in pellicola, perché negli anni 90 se volevi fare qualcosa che assomigliasse al cinema dovevi girare in pellicola.

In puro stile indie abbiamo fatto tutto noi, dividendoci i ruoli “tecnici” durante le riprese: uno ha fatto la regia, l’altro l’aiuto, quello il direttore della fotografia, quell’altro la produzione. Io ho fatto l’operatore alla macchina, che in questo caso era appunto una cinepresa Super-8.
Arrivati alla fine, ci siamo resi conto che ci mancavano due ruoli chiave che nessuno di noi allora poteva coprire: ci serviva un musicista per la colonna sonora, e soprattutto ci serviva un montatore. Il corto non aveva dialoghi quindi la musica era molto importante; per quanto riguardava il montaggio, non era solo vitale il fatto di mettere insieme le scene, ma anche di vedere che cosa avevamo girato, cosa che attendevamo con ansia dopo aver passato tanto tempo al lavoro.
E’ stato proprio dopo aver arruolato il musicista, un batterista della zona, che siamo arrivati al montatore, ovvero suo padre: Felice Quacquarella. Il signor Quacquarella gestisce un piccolo laboratorio dove fa riversamenti, copie su nastro e montaggi vari.
E’ l’unico professionista della produzione, l’unico che siamo disposti a pagare.
Ha i macchinari che ci servono e sa come usarli.
E’ dannatamente indispensabile, insomma.

L’ora è arrivata e io e Sergio suoniamo al campanello del laboratorio.
Felice Quacquarella viene ad aprirci. Tarchiato, sulla sessantina, pelo folto e brizzolato, occhi acuti che ci squadrano con aria torva. Senza proferire parola ci conduce in una stanza immersa nella penombra al centro della quale campeggia la prima moviola che abbia mai visto in vita mia. Se ci fosse un oblò, mi sembrerebbe di stare dentro il Nautilus.
Ora, sono sempre stato attratto dalla figura del manovratore, dell’uomo ai comandi.
Non mi ci è voluto molto per trovarmi folgorato dai gesti con cui il corpulento Quacquarella armeggia al suo bizzarro tavolo da lavoro: come mette la bobina sui piatti, il modo in cui la srotola tra i rocchetti, in cui aziona la manopola del motore, i gesti rapidi con cui segna con la matita bianca e trancia il nostro beneamato girato con la taglierina.
Noi gli diciamo più o meno l’ordine delle scene, al resto pensa lui. Se ha dei dubbi li esprime, altrimenti manovra la sua plancia meccanica in accigliato silenzio. Apparentemente non ha molti dubbi, comunque.

Mentre infiliamo le sequenze una dopo l’altra ho la sensazione
quasi fantascientifica di aver raggiunto la meta:
questo è il cinema, è qui che succede per me.

Non sdraiato a terra con l’occhio spiaccicato sull’obiettivo nel mezzo del mercato comunale, o sulla sella di una bicicletta spinta a mano dagli altri mentre cerchiamo di improvvisare un carrello, o nelle decisioni mai pienamente convinte su dove mettere la macchina da presa, cosa far fare al personaggio, come far finire la storia. C’è un solo posto dove si prendono davvero le decisioni, ed è l’antro dello stregone Quacquarella.

Lo stregone mangia la foglia, comincia a prendere in simpatia i due giovani dilettanti, e poi non è che stia venendo fuori un brutto lavoro, per quanto “sperimentale”; per cui aumenta la percentuale di parole che emette, come se girasse un’altra delle sue manopole. Ci dà qualche dritta, ci racconta un po’ di aneddoti, come quella volta che doveva sonorizzare un dialogo tra due personaggi, uno dei quali doveva dire una frase in arabo.
“Ho preso una frase da un documentario sugli animali e ho girato il nastro al contrario, voilà: un arabo perfetto. Me la ricordo ancora, la frase: I pescecani, di notte, dormono sul fondo.”

Usciamo dal Nautilus con la bobina tagliata e un riversamento del montato su VHS, pronto per le musiche. Adesso il corto c’è, esiste, talmente reale da essere nelle nostre mani. Finalmente abbiamo capito cos’abbiamo fatto: è un “corto sperimentale”, ecco cos’è.
Un paio di mesi dopo avevo superato gli esami di ingresso alla scuola di cinema di Milano. Imprevedibilmente ero stato ammesso a entrambi i corsi ai quali mi ero iscritto: sceneggiatura e montaggio. La scelta non fu così difficile.

Per inciso, tutti i cinque autori di quel corto oggi lavorano nel mondo delle immagini in movimento.