1. La mia prima volta

La celebrità è una serie di equivoci che circondano un nome.
                                                         – Joni Mitchell –

Io me la ricordo perfettamente.
Certo, me ne sono reso conto parecchi anni dopo, ma so con sicurezza quando è stata la prima volta in cui la globalizzazione ha fatto la sua prima apparizione nel mio mondo.
Avrò avuto sette, otto anni al massimo. Ero con mio nonno Angelo allo stadio comunale di Rho. Lo stadio era vicinissimo a casa e qualche pomeriggio il nonno mi ci portava per assistere a partite di calcio tipo Rhodense contro Pro Patria. Una volta avevamo visto anche la Nazionale Cantanti, in una versione però a dir poco annacquata (il cantante più famoso della squadra era Gianni Bella). A dispetto delle partite non proprio di prima serie che ospitava, lo stadio era grande e ben strutturato, aveva anche una pista di atletica leggera che girava attorno al campo di calcio e un bar abbastanza fornito, che era più che altro un circolo di dopolavoristi.
E’ proprio al bar dello stadio che è successo.
Il nonno mi aveva chiesto se volevo qualcosa, mi aveva dato qualche spicciolo e io ero entrato nel bar, che ai tempi era gestito da un energico vecchietto. Alzandomi in punta di piedi avevo appoggiato le monete sul bancone e avevo chiesto una gazzosa.
Il barista mi aveva guardato dall’alto e con tono burbero aveva risposto la fatidica frase: “Se dìs no gasùsa, se dìs Sprait!”
(Non si dice gazzosa, si dice Sprite!)

Ora, sorvoliamo sul fatto che la suddetta bevanda un claim pubblicitario di tale genio non ce l’ha mai avuto, e concentriamoci invece sull’evento di portata mondiale che in quel momento manifestava i suoi prodromi, nel bar dello stadio comunale di Rho, a un bambino già di per sé confuso e allora incapace di scorgere dietro le parole di un barista incazzoso il fenomeno di portata globale che nascondevano. Più che di una profezia, si potrebbe quasi parlare di un’iperstizione, un termine che a grandi linee descrive una situazione in cui il futuro interviene sul presente, indirizzandolo ai propri fini.
Fino a quel momento “gazzosa” era il nome di una bevanda gassata e zuccherata, originariamente prodotta, pare, nel Ticinese a partire da metà Ottocento; circa un secolo dopo la Coca-Cola acquistò una ricetta tedesca chiamata “Fanta Klare Zitrone”, e nel 1961 cominciò a produrla negli Stati Uniti ribattezzandola Sprite. Nei trent’anni successivi la Sprite venne commercializzata in tutto il mondo, e l’imposizione del brand fu così efficace che la marca diventò letteralmente il nome della bevanda che aveva soppiantato, come ebbi modo di scoprire quel pomeriggio allo stadio.
Ripensandoci oggi, trovo che il vecchio barista mi abbia veramente dato una lezione che ho assimilato troppo tardi: ossia che l’effetto originario di quello che poi avremmo chiamato globalizzazione, prima della nascita del “villaggio globale”, prima del dominio delle multinazionali, prima delle deregolamentazioni finanziarie e dell’outsourcing, sia stato il potere di cambiare nome alle cose. Solo una forza proveniente dall’alto, da molto più in alto della tua maestra di scuola, dei tuoi genitori, dei tuoi governanti, una forza mistica, onnisciente, poteva avere questa facoltà battesimale.
Comunque, la mia Sprite era frizzante e sapeva di gazzosa, e questo a me quel pomeriggio bastava.

2. La mia ultima volta

– Non era Budapest un paese comunista all’epoca?
– Certamente. Ma grazie alla mia invenzione, i miei amici capitalisti e io siamo riusciti a mettere in ginocchio il governo.
– Mi stai dicendo che il Cubo di Rubik è responsabile del crollo del partito comunista a Budapest?
– Assolutamente.
                                               – da un’intervista a Erno Rubik –

Nei vent’anni che seguono ricordo che sono successe alcune cose, tra le quali, in ordine sparso:
arriva la nube radioattiva da Chernobyl; in Italia aprono McDonald’s e Burger King; Margaret Thatcher viene eletta più volte; Kurt Cobain si spara in testa; nascono Internet, Google, Napster; aprono anche Ikea, Auchan, Blockbuster, Lidl; si diffondono i cellulari; si dissolve l’Unione Sovietica; entra in vigore l’euro; la Rhodense cessa l’attività in seguito a problemi finanziari; si lanciano Nintendo e Playstation; Berlusconi scende in campo; viene a galla il crac Parmalat; ci sono la guerra del Golfo, quella dei Balcani, quella in Cecenia, in Ruanda, Afghanistan, Iraq, l’11 settembre, il G8 di Genova, la seconda Intifada e Tangentopoli; cade il muro di Berlino.
Quando arrivò quest’ultima notizia ricordo che una delle mie insegnanti interruppe le lezioni in classe e aprì il dibattito su quanto stava succedendo, che tutti definivano come qualcosa di epocale. Il crollo di un muro è sempre un buon segno e in quei giorni sembrava anche a me, che nell’89 ero solo un ragazzino, che si respirasse un’aria diversa, a tratti euforica: era come se un grosso tappo, che da tempo conteneva tutto l’entusiasmo e la fiducia nel futuro, fosse stato fatto saltare. E tutto questo alla soglia di una nuova decade e vicinissimo all’inizio di un nuovo millennio.
E’ stata per me la prima e ultima volta in cui ho sentito che la storia portava una ventata di speranza e di ottimismo, esprimendo la possibilità di un mondo effettivamente migliore; un mondo in cui ci si lasciava per sempre alle spalle il retaggio della guerra e si poteva parlare di “unificazione” nei termini di una spinta comune, e comunitaria, verso la solidarietà e il reciproco riconoscimento dei popoli. Si poteva parlare di “libertà” facendola cominciare con il più elementare dei diritti, quello che il muro aveva negato e represso: la libertà di movimento.
Non credo di aver più fatto esperienza di un momento simile. Poteva andarmi peggio, ma considerato che sono passati trent’anni la media è un po’ bassina. Mettiamola così, mi piacerebbe avere un’altra opportunità.
Invece da allora mi sembra che ogni volta che la storia è entrata in casa è stato per portare brutte notizie. Certo, in Europa abbiamo beneficiato di un periodo di abbondanza e di (relativa) emancipazione, e il progetto di una pacificazione europea, per quanto scricchiolante, sta ancora reggendo.
Ma quell’aria diversa è durata poco, e non ha portato tutti i frutti sperati.
Anzi, col passare del tempo mi ha lasciato più dubbi che certezze. Per esempio sulla differenza che c’è tra la caduta di un muro e la rottura di un argine.

3. Il cubo di Rubik

Un concetto mai abbastanza ribadito è che la globalizzazione, intesa come fenomeno di riorganizzazione dello spazio, dell’economia e delle relazioni sociali, è di per sé un processo inevitabile che esprime il percorso dell’umanità e le prodigiose conquiste da essa realizzate. Ciò contro cui ci battiamo non è una tale tendenza, ma il meccanismo e gli effetti di quella che definiamo globalizzazione neoliberista, i cui obiettivi sono in contrapposizione a quelli della globalizzazione della solidarietà tra i popoli, l’unica in grado di rispondere alle aspirazioni della condizione umana.
             
– Miguel Urbano Rodrigues, Porto Alegre, 26 gennaio 2001 –

Per una bizzarra ma direi simbolica coincidenza, la commercializzazione della Sprite e la costruzione del muro di Berlino sono eventi avvenuti nello stesso anno, il 1961. Nei decenni seguenti le rappresentazioni sono aumentate in ampiezza e in profondità ma il copione è rimasto il medesimo: la circolazione delle merci e del denaro ha potuto approfittare di tutta la mobilità disponibile, ha attraversato confini e laddove prima c’erano dogane e posti di blocco ha trovato tappeti rossi; la circolazione delle persone, invece, è stata progressivamente e in vari modi ostacolata quando non violentemente impedita, adducendo giustificazioni di sicurezza politica o sociale.
Ma al di là delle considerazioni su migrazioni e libertà di movimento, che meritano un dicorso a parte, ci sono un paio di punti sui quali vorrei soffermarmi.

Il primo è che quello neoliberista è stato un progetto a lungo termine, che trae le sue origini ben prima del 1961. Nel ’47 ad esempio su iniziativa dell’austriaco Friedrich Hayek ebbe luogo la prima riunione della Mont Pelerin Society, un gruppo chiuso di intellettuali che costituì l’architettura ideologica di base affinchè il neoliberismo prosperasse (ma elementi di quello che sarebbe diventato il pensiero neoliberale possono già essere individuati a partire dagli anni Venti del Novecento, con economisti europei e americani che lavoravano ai margini dell’accademia per promuovere e mantenere gli ideali liberali).
Hayek fu uno dei massimi promotori della strategia a lungo termine: sostenne incontri e think tank, lavorando nel contesto di un’orizzonte globale, in modo astratto (cioè al di fuori dei parametri delle possibilità esistenti) e arrivando a formare prima una corrente di pensiero e poi a collocare membri della MPS in posizioni governative.
Ci sono voluti quindi circa sessant’anni per arrivare agli anni 80, il decennio in cui le politiche neoliberiste sono diventate solide realtà e hanno plasmato il mondo come lo conosciamo oggi, radicando talmente in profondità questa visione da farla diventare egemonica.
Il “lato oscuro” della globalizzazione quindi non ci è stato consegnato appena cotto; al contrario, ha beneficiato di una strategia e di una visione a lungo termine,  e da un certo momento in poi dell’asservimento della politica ai propri interessi.

Il secondo punto riguarda il presente.
Ho già parlato di come la globalizzazione sia stata inizialmente un cavallo di battaglia delle destre, e che sia stata osteggiata e messa in dubbio (se non altro nella sua accezione neoliberista) da movimenti di sinistra, spesso privi di una vera rappresentanza politica. Oggi però assistiamo a un complesso cambiamento di prospettiva, che sta alla base degli sconvolgimenti che le consultazioni democratiche hanno portato negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in molti paesi dell’Europa.
Questo a causa del fatto che la globalizzazione ha perso gran parte della sua attrattiva sulla gente comune; indipendentemente dalla loro fede politica, le persone si sentono sempre più sradicate dalla realtà e prive di controllo su un futuro che, tra l’altro, appare sempre più oscuro e impossibile da modificare attraverso scelte democratiche.
In questo clima la conseguenza più grande è stato lo spostamento delle fasce sociali attorno a ideali, ideologie e visioni del mondo consolidate.
Per spiegarmi meglio: immaginate la società, con le sue diverse classi, come un cubo di Rubik. Nel cubo ogni faccia colorata ha una posizione prefissata, ma il meccanismo interno fa sì che queste facce possano ruotare mescolandosi tra di loro andando a occupare altre posizioni. Può capitare che delle tessere gialle si trovino accanto a quelle verdi, e laddove dovrebbe starci un pezzo rosso ce ne sia uno blu. Insomma, anche se non ne avete mai finito uno sapete come funziona.
Un po’ allo stesso modo oggi assistiamo a un rimescolamento ideologico.
Dai tempi di Clinton e Blair la sinistra “occidentale” ha sposato un neoliberismo progressista che promuove ideali di multiculturalismo, difesa dei diritti ed emancipazione delle minoranze (con particolare attenzione a quelle sessuali) e allo stesso tempo flirta con il mondo degli affari, delle banche e della finanza. Si è però dimostrata incapace di affrontare i problemi legati al mondo del lavoro (come il precariato, l’assenza di mobilità lavorativa e sociale, la disoccupazione giovanile) e di curarsi delle classi meno abbienti, perdendo così il consenso di quella parte di elettorato che dalla sinistra si sentiva maggiormente rappresentata.
La nascita di nuovi partiti populisti che hanno furbamente soffiato sul fuoco ha fatto il resto, e alcuni settori sociali hanno cambiato posizione come le facce del cubo: gli avversari della globalizzazione si sono trovati accanto a chi contesta il multiculturalismo, l’immigrazione o i diritti delle minoranze; i democratici internazionalisti invece sono finiti dalla parte dell’élite finanziaria e delle ricche superstar dello spettacolo e della moda. Le classi più disagiate e meno istruite, spesso residenti fuori dai grandi centri urbani, reclamano la sovranità nazionale, si schierano contro le politiche di accoglienza e rifiutano l’Unione Europea; i “cittadini”, spesso considerati la nuova borghesia, sono europeisti e cosmopoliti. I primi sono risucchiati da movimenti populisti e xenofobi che non promettono null’altro che autoritarismo e isolazionismo; i secondi sono progressisti in balìa di partiti incapaci di capire la realtà e privi delle idee coraggiose che servirebbero per contrastare il sistema.
Alto e basso, democratico e reazionario vivono fianco a fianco: e così si creano situazioni al limite del paradosso, come il fatto che un magnate multimiliardario venga eletto presidente con i voti delle classi popolari oppresse che vogliono ribellarsi contro le élite.
Alla luce di tutto ciò non credo che stiamo vivendo una vera “crisi della democrazia”.
Ad essere in crisi sono la rappresentanza politica in generale e la sovranità nazionale, e alcune forme di partecipazione civile. Credo però che stiamo assistendo ad un fenomeno mai visto prima, in cui la democrazia da strumento costruttivo e di consenso si è mutato in strumento di protesta. Attraverso scelte democratiche imprevedibili e irrazionali il popolo sta manifestando chiari sintomi di un malessere profondo, che non riesce a trovare altri sbocchi, che può sfociare in un “disturbo della personalità” collettivo e che in estrema sintesi si può tradurre così: “Questa globalizzazione non ci piace. Fateci uscire o spacchiamo tutto.”

Io non so se le facce del cubo torneranno ad essere quelle di prima.
Forse non è nemmeno la cosa giusta in cui sperare. Ma è un dato di fatto che, come ha scritto Robert Misik, “dopo trent’anni in cui sono state le persone normali a pagare il prezzo della globalizzazione neoliberista, che quindi ora sono esasperate, il fatto che i partiti di sinistra vengano percepiti come parte dell’establishment è un rischio fatale”.
Così come sono sempre di più gli autori e gli accademici (dallo scomparso Zygmunt Bauman ai nuovi “accelerazionisti” Alex Williams e Nick Srnicek) che invocano una visione a lungo termine nel campo della politica progressista – una Mont Pelerin Society di sinistra, per così dire. Un’idea di governo e di cambiamento ambizioso da realizzarsi passo dopo passo per un lungo periodo, che possa formarsi al di fuori della politica e poi consolidarsi attraverso di essa, e soprattutto che non si esaurisca come spesso accade ai movimenti di opposizione che partono “dal basso”.
Mi piacerebbe pensare che un po’ di strada sia già stata fatta, considerando il fatto che il tema di un’alternativa al capitalismo e alla globalizzazione neoliberista viene affrontato da anni da diversi economisti, filosofi e giornalisti; il fatto che la politica, soprattutto quella di sinistra, non abbia ancora preso in seria considerazione l’argomento è il segno di quanto miope e asincrona sia nei confronti di un’idea di futuro.
Non che voglia insinuare che sia così semplice inserire queste questioni in un’agenda politica, soprattutto in un contesto in cui il consenso si deve guadagnare all’impronta, fingendo di avere soluzioni immediatamente realizzabili a problemi strutturalmente complessi. Ma mi convinco sempre più del fatto che una politica progressista debba essere pronta a farsi portatrice di certe idee, per quanto audaci siano; e soprattutto a recuperare la credibilità opponendosi alla finanziarizzazione e accompagnando la difesa dei diritti delle minoranze con la protezione delle maggioranze minacciate.