Ho imparato a suonare la chitarra da autodidatta.
Gli autodidatti sono come quei cuccioli che vengono cresciuti da animali di un’altra specie: i genitori sono quelli che si trovano, indipendentemente dalla razza. La maggior parte delle volte se la cavano da soli, ma vanno comunque in cerca di qualcuno che li allevi.
Io i miei maestri li ho trovati in diversi posti. In primis, all’edicola sotto casa: “Corso di chitarra” a cura di Franco Cerri e Mario Gangi, serie settimanale di 90 fascicoli con allegata audiocassetta, presentata in TV e su prestigiose riviste nientepopodimeno che da Red Ronnie. Arrivato al fascicolo 17, dopo una scrupolosa analisi dei risultati ho ritenuto che il mio addestramento fosse compiuto. Qualunque segreto i signori Cerri e Gangi avessero in serbo per me nelle successive 73 settimane, sentivo che ormai ero pronto a camminare con le mie gambe. Sono certamente stato il loro allievo più veloce.

Libero quindi di andare nel mondo come la creatura di Frankenstein, ho cercato e a volte trovato altri luoghi di apprendistato: taverne, cantine, panchine, bar, centri sociali, piazzette, parchetti; dove ho incontrato amici, parenti, musicisti dilettanti e dopolavoristi professionisti con cui ho strimpellato o che ho visto strimpellare e ai quali ho chiesto o più spesso rubato scampoli di nozioni tecniche, un giro di blues, un accordo di settima minore. Gente da cui ho tratto anche insegnamenti importanti in fatto di musica, come per esempio imparare a distinguere la sottile differenza tra il dare e il dare fastidio.

Ma i luoghi dove ho davvero trovato i maestri migliori, da prima ancora di imbracciare lo strumento, sono soprattutto i dischi. Sui dischi ho imparato persino ad accordare. Quei tizi che ci suonavano mi hanno insegnato a distinguere le note, a formulare le scale, a cambiare diteggiatura, a improvvisare gli assoli. Chitarristi in gambissima, sempre pazienti e disponibili, anche quando gli facevo ripetere un passaggio all’infinito.
Ho deciso di presentarvi alcuni di loro in questo articolo. Un omaggio ai miei chitarristi favoriti. Chiedo umilmente scusa agli assenti, gente tipo Jimi Hendrix, Steve Howe, Neil Young, Hans Magnus Ryan, Dave Gregory, Stuart McCallum, Joe Satriani, Terje Rypdal, Ralph Towner, Tommy Emmanuel, Graham Coxon, Paolo Tofani,  a quelli che mi sto dimenticando e a quelli che spero si aggiungeranno, perchè avrò anche 17 fascicoli di corso di chitarra alle spalle ma ne ho ancora da imparare.

Concludo con una precisazione per la cronaca. Nonostante tali prestigiosi maestri, quando molti anni dopo i miei sudati inizi alla sei corde ho avuto a che fare con musicisti professionisti o semi-professionisti di estrazione jazz, che dopo avermi esposto i loro curricula mi chiedevano “E tu, con chi hai studiato?”, io ho sempre dato la stessa risposta: “Con Red Ronnie.”

KENNY BURRELL

c70da40192ea4e4b93bd5b6b8680e

Nessun altro chitarrista ha rappresentato la linea di confine tra il blues e il jazz quanto Kenny Burrell. Attraversare quel confine con la sua musica è il modo migliore di ascoltare come, sia chitarristicamente che a livello di insieme, il vocabolario del blues si apre  progressivamente man mano che ci si addentra nei territori del jazz: e anche se io consiglio il viaggio in questa direzione, è fuori di dubbio che sia altrettanto affascinante a ritroso.
Kenny sapeva che il blues era la radice, non solo un modo di suonare ma un modo di essere, di esprimersi con la musica, e questo gli ha permesso di diventare uno dei più grandi chitarristi jazz, sicuramente il mio punto di riferimento nel genere.
Tante le cose che invidio nel suo stile: il suono caldo e rotondo, l’eleganza sopraffina nel fraseggio e nell’interplay, quel modo rilassato di stare sul tempo, perfettamente al centro dell’andamento eppure capace di incalzare con uno swing affilato come di restare leggermente “indietro”.
Però al contrario di tanti mostri sacri di scuola jazz, da Kenny si può imparare (e tanto) semplicemente ascoltando. Suonandoci sopra, come da vecchia scuola. Si prenda un capolavoro come Midnight Blue o le registrazioni in omaggio ad Ellington. Nella complessità è sempre possibile rintracciare una benevola semplicità: mai sopra le righe, nessun virtuosismo inutile. Pura, innegabile classe.

STEVIE RAY VAUGHAN

getty621images-98324334_0Un caso che anche SRV sia cresciuto intriso nel blues, e che abbia poi avuto una folgorazione “burrelliana” per il jazz, tanto da includere nel proprio repertorio Chitlins Con Carne, uno dei cavalli di battaglia proprio di Kenny Burrell?
Per me no, ma al di là di queste elucubrazioni, sono affettivamente legato a Stevie Ray.
E’ il classico chitarrista che ti fa venire voglia di suonare, anzi, ti provoca così tanto che vorresti essere lì sul palco con lui e fargli vedere quello di cui sei capace.
Ovviamente ne usciresti con le ossa rotte perché quello di Stevie Ray Vaughan è il blues come dovrebbe suonarlo (e cantarlo) un bianco cresciuto con la musica nera nel sangue e con una chitarra a tracolla: bollente, viscerale, potente e struggente.
Spesso ci si chiede cosa avrebbe fatto Hendrix se non se ne fosse andato a 27 anni, dove sarebbe arrivato. La domanda è altrettanto legittima per Stevie Ray Vaughan. Io credo che ci avrebbe riservato molte sorprese e che col tempo avrebbe convinto anche i suoi detrattori.
Basta ascoltare le sferzate rock di brani come Crossfire o Tightrope, o ancora le tentazioni jazz-blues della articolata Riviera Paradise, tutte dall’ultimo lavoro in studio…e, ritirando in ballo Hendrix, la versione capolavoro di Little Wing, un atto di rigenerazione che trasforma il geniale schizzo di Jimi in un caleidoscopico affresco. Un nuovo classico.

DAVID GILMOUR

gilmour2Da molti David Gilmour non viene considerato un “virtuoso”. Eppure bending di due toni e mezzo di immacolata precisione, fraseggi entrati nella storia del rock e un suono tra i più ricercati ed imitati dai chitarristi di tutto il mondo sono innegabili virtù.
A scanso di equivoci, suonare Gilmour non è per niente semplice: anzi il buon Dave può rivelarsi un osso più duro di molti shredders. Primo, perché non basta studiare. Secondo, perché le qualità preponderanti di Gilmour sono quelle che mancano alla stragrande maggioranza dei chitarristi.
Parliamo di efficacia dell’esposizione: temi e assoli di un lirismo unico, di una semplicità inestricabile proprio perché il gusto incontra una tecnica personalissima. Provate a cavarci qualcosa di simile da quella stessa pentatonica, da quello stillicidio di note lunghe, vi sembrerà di ululare alla luna. La chitarra di Gilmour canta servendosi di una lingua povera e popolare, eppure le frasi sono nobili, altere, mai volgari. Il vocabolario infatti è primariamente quello blues (ascoltatevi Gilmour in Standing Around Crying, da un album tributo a Muddy Waters realizzato da Paul Rodgers nel 1993), ma l’uso che ne viene fatto è trascendentale.
Parliamo di un’intonazione superiore, esaltata certo dalla strumentazione elettrica ma che è fondamentalmente un affare di orecchio, cuore, e dita naturalmente. Una cosa faticosissima, logorante da riprodurre per chi di natura non ce l’ha.
Parliamo ovviamente della grandiosità del suono, che tra l’altro non è soltanto quello immortalato negli album più famosi dei Pink Floyd, da The Dark Side Of The Moon in poi, ma anche quello delle esplorazioni soniche di Ummagumma, Atom Heart Mother o Meddle, delle sperimentazioni con gli effetti a pedale, del bottleneck sfregato sulle corde per metterle in vibrazione, del “seagull effect” del wah-wah collegato al contrario…
In ultimo, parliamo del fatto di aver fatto parte di quella che è forse la band più importante della storia del rock, di averne caratterizzato grandemente il sound e, anche se in misura minore, diverse scelte artistiche.
Se non sono virtù queste…

MICHEAL HEDGES

AT_Barbara_2Quando ho ascoltato per la prima volta Breakfast In The Fields, l’album d’esordio di Michael Hedges, ammetto di aver lacrimato. Io ero poco più che adolescente e lui, poco più che quarantenne, aveva già lasciato questo mondo. Ricordo, tra le stringate note di copertina, quella che informava che in nessuno dei brani erano state fatte sovraincisioni, e che nessun effetto era stato applicato al suono della chitarra salvo un leggero riverbero; come dire, a scanso di equivoci, lo dichiariamo perché le vostre orecchie percepiranno altri suoni.
Spesso si è detto che ciò che Jimi Hendrix ha fatto per la chitarra elettrica, Michael Hedges lo ha fatto per l’acustica. Trovo che il paragone sia abbastanza azzeccato. Come Hendrix, Hedges ha illuminato un nuovo modo di suonare, nel quale una parte importante era rappresentata da un diverso rapporto fisico con lo strumento. Accordature alternative, tapping, slap harmonics, effetti percussivi, e una combinazione di tecniche spesso mutuate dalla chitarra elettrica rivedute, aggiornate e trasportate sull’acustica: una concezione orchestrale dello strumento derivata anche dal suo essere polistrumentista che si è sposata magicamente a un’apertura mentale e al rifiuto di ogni ortodossia, doti che raramente si trovano in musicisti che come lui hanno avuto un ricco bagaglio di studi alle spalle.
C’è un’altra sentenza che vorrei mettere nero su bianco: dopo qualche anno dalla sua morte diversi chitarristi hanno raccolto la sua eredità, per non dire imitato il suo stile, ma Hedges è stato ed è unico. Inarrivabile nelle invenzioni tecniche e nell’intensità delle sue composizioni, perché quando si parla di Hedges non si parla solo di un grandissimo innovatore dello strumento ma anche di un autore sensibile e intelligente.
Ispirarsi a Michael Hedges per me significa considerare la chitarra un territorio ricco di possibilità ancora da esplorare, in cui è lecito osare, credere nell’impossibile; se hai la musica dentro, questo pezzo di legno e acciaio può diventare la tua bacchetta magica, la tua spada nella roccia, il tuo tappeto volante.

DJANGO REINHARDT

django-reinhardt-9454889-2-rawIn un certo senso Django è un po’ un intruso in questa lista.
Perché devo ammettere che non l’ho ascoltato così spesso, anche se quando l’ho fatto sono sempre rimasto folgorato. E poi anche perché non posso dire che mi abbia influenzato chitarristicamente (magari) ma la verità è che lo ascolti, ti fa venire voglia di suonare come lui, non ce la puoi fare, ti incazzi e non lo ascolti più. Poi, per suonare bene manouche bisogna suonare solo quello, almeno per un bel pezzo. Io mi sono limitato a scrivere un brano, vagamente ispirato a Django, dal titolo “Manina”, finito sul primo disco dei Mala Hierba.
Però ci sono altre ottime ragioni per cui Django per me è importante. Per esempio il fatto che lui, il chitarrista jazz che ha influenzato tutti gli altri chitarristi jazz del mondo, americani inclusi, il primo a portare alla ribalta la chitarra solista nel genere, fosse uno zingaro francese nato in Belgio. E che fosse autodidatta. Per esempio che lui, chitarrista dallo stile fluido ma funambolico, sicuro, elegante, velocissimo (aveva “tutta la velocità che si può desiderare”, come disse Jerry Garcia), fosse fisicamente menomato: le ustioni a seguito dell’incendio del suo caravan gli avevano paralizzato mignolo e anulare della mano sinistra, quando era appena maggiorenne. Praticamente per tutta la sua carriera Django ha suonato utilizzando solo tre dita della sinistra, sviluppando una tecnica che risulta ancora oggi inarrivabile per i chitarristi che le dita le hanno tutte e cinque. Django Reinhardt mi ha insegnato due cose fondamentali: che fare musica è suonare la storia che ti porti dentro, e che l’unico modo di superare un limite è trasformarlo in una risorsa.

ROBERT FRIPP

250px-Robert_FrippChitarristicamente parlando, Fripp è il genio del male. Maniacale, ossessivo, imperscrutabile, a tratti sadico; ma al tempo stesso anche libero, impavido, visionario, poetico.
Forse il modo migliore per sintetizzare è affermare che ancora oggi, a quasi 50 anni dall’esordio dei King Crimson, è il più importante chitarrista d’avanguardia nella storia del rock. Non solo per ciò che ha combinato con il suo storico progetto-entità, ma anche per le attività extra: gli album con Brian Eno, Andy Summers o David Sylvian, le apparizioni nei solchi di David Bowie, Talking Heads, il lavoro come produttore per Peter Gabriel o Keith Tippett, l’invenzione della League Of Crafty Guitarists…tutte esperienze che dimostrano una apertura e una capacità non solo di collaborare, ma anche di “collettivizzare”, lontana anni luce dall’immagine del chitarrista ombroso e solitario che pure gli è propria. Si potrebbe anzi dire che una sua specialità sia incrociare la propria strada con quella di musicisti eterogenei che come comun denominatore hanno una tendenza all’originalità stilistica e alla sperimentazione.
D’altronde, per continuare a portare avanti i King Crimson e mantenere il loro status di band “di riferimento”, di quelle a cui si guarda per capire il presente e avere sprazzi di futuro, bisogna saper mettere d’accordo gli estremi; e quindi lo schema incontra l’improvvisazione, la disciplina incontra il caos, la direzione personale incontra l’interpretazione collettiva. Nonostante già dai loro esordi i King Crimson abbiano condizionato enormemente generazioni di musicisti, il chitarrismo di Fripp è rimasto prevalentemente culto di pochi. Da un paio di decadi a questa parte però si sono moltiplicati chitarristi e gruppi che, anche in questo caso con attitudine “trasversale”, si rifanno a lui o ai Crimson (tratti frippiani emergono nel lavoro di Omar Rodríguez-López coi Mars Volta o in quello di Hans Magnus Ryan coi Motorpsycho, nell’audacia elettrica ed elettronica di Vernon Reid, e ancora in band come Tool, Battles, Voivod, addirittura Nirvana). Non credo di spingermi troppo oltre rintracciando influenze frippiane anche in certo jazz contemporaneo (Bad Plus, Tigran Hamasyan).
E’ molto difficile identificare lo stile di Fripp e dirvi perché per me sia geniale. In molte occasioni si muove in sottofondo, in altre sviluppa pattern intricatissimi ad alto rischio per i tendini di entrambe le mani; si concede pochi assoli propriamente detti, nonostante sia un solista abilissimo. L’invenzione dei Frippertronics e in generale il pioneristico lavoro sui sintetizzatori per chitarra hanno aperto possibilità enormi per lo strumento, al contempo anche in questo campo il suo uso della tecnologia (e delle composizioni o improvvisazioni ad essa legate) è unico, non assimilabile a quello di altri.
Più che di stile bisognerebbe parlare di approccio, un’attitudine obliqua e trasversale che lo vede rifarsi, più che al blues, al jazz e alla musica contemporanea, con una spiccata tendenza a far diventare il suono della chitarra “alieno” e a portare lo strumento in territori diversi, che spesso non sono congeniali alla sei corde. Il bello insomma è che potete aspettarvi da lui tutto ciò che un chitarrista, e una chitarra, NON farebbero.

VERNON REID

ebc2d21b14c9c7e7751aeefa7420f.jpgAvrò avuto 16 o 17 anni ed ero pronto a uscire dagli anni ’70. Una sera mi imbatto per caso in un live su Videomusic. Sono i Living Colour in una data del tour di Stain: chiome afro, stage diving, energia a cannone, brani difficili da etichettare, e un chitarrista sopra le righe che in un attimo supera a destra tutti gli shredders che imperversavano ancora ai tempi, a dispetto dell’avvento del grunge.
Come la sua band, Vernon Reid era allo stesso tempo contemporaneo, avanguardista e profondamente legato al passato, in un modo che diventava inevitabilmente politico: era la rivendicazione della musica black come fondamento di tutta la cultura sonora americana, inclusi generi come hard-rock e metal che si ritenevano appannaggio dei bianchi. Nel tritacarne loud ‘n proud dei newyorchesi finiva di tutto, al punto da dover coniare un nuovo termine (“crossover”) per identificare la bomba sonora.
Quello che non potevo aspettarmi negli anni ’90 era che Vernon Reid diventasse per me un punto di riferimento “ad libitum”, capace di sopravvivere al mio colpo di fulmine adolescenziale; ma non poteva essere altrimenti, visto che il tipo è onnivoro e tentacolare per natura. Qualsiasi cosa suoni, siano ritmiche funky, rivolti jazz, effetti speciali al guitar-synth, assoli pirotecnici, possiede una personalità marcatissima, un’irriverenza iconoclasta e allo stesso tempo un profondo rispetto della materia musicale che si trova a manipolare. Il suo stile è sporco, istintivo, spesso funambolico ma ricco e a suo modo elegante. Si serve di scale non banali, come quella esatonale, e non disdegna licks e cromatismi mutuati dal jazz, in particolar modo dal be-bop. Anche a livello compositivo spicca per originalità, come si può ascoltare anche nei progetti extra Living Colour (Masque, Yohimbe Brothers con DJ Logic, le collaborazioni con altri avanguardisti jazz come Elliot Sharp, David Torn, Bill Frisell).
A livello di equipaggiamento è uno sperimentatore spericolato: sintetizzatori per chitarra e pedali a profusione, in catene spesso difficili da elaborare che il nostro gestisce alla perfezione, anche se a volte questo porta il suo suono a scurirsi e a restare un po’ indietro nel mix (cosa che comunque a me non dispiace). Sul palco ha l’esperienza e il carisma di uno che si è formato nei club sporchi e cattivi della New York degli anni ’80, di uno che attraversava il Bronx chitarra in spalla.
Quando l’ho intervistato telefonicamente dall’altra parte del filo c’era un musicista che amava parlare e ragionare di musica e identità, senza lesinare commenti. Placido ma deciso.
Oggi come vent’anni fa, Vernon Reid è un esempio di chitarrista libero, poliedrico, colto e popolare al tempo stesso.

JIMMY PAGE

jimmy-page-gibson-imageOvvero, cosa ne sarebbe stato della mia vita senza i Led Zeppelin?
James Patrick Page, questa è una lettera d’amore più che una recensione delle tue virtù chitarristiche. Virtù che oggi, ahimè, qualcuno ti nega, giustificandosi col fatto che il tempo ti ha segnato, che non hai più volato alto dopo il dirigibile, e arrivando a sostenere che dai, anche allora non eri ‘sto esempio di tecnica e di pulizia.
E intanto ti copiano, cani maledetti. Ma chi se ne frega, tanto nella storia del rock ci sei già. Ci hai dato quello che per me è IL riff di chitarra, e quell’arpeggio che quando lo sento mi sembra che mi chiamino per nome.
Ombre e luci, caro Jimmy, violenza e dolcezza, e tutte le estremità che hai voluto fortemente esplorare con la tua band: se c’è qualcuno che si intende di contrasti quello sei tu. Se fosse stata soltanto questione di bravura avresti potuto continuare a fare il session man in studio, anche se saresti stato sprecato. Ma c’era un’urgenza, una necessità che non si poteva esprimere se non seguendo una strada propria, una strada fatta di fervore creativo ma anche di passione fisica, quella roba elettrica che parte da qualche posto nelle viscere e arriva serpeggiando fino alle mani.
E poi c’era quell’altro fatto, che non ti accontentavi. Bisognava andare oltre, sempre oltre, elettrica, acustica, elettrica 12 corde, archetto, mandolino, accordature alternative. Un musicista crea uno stile, ma deve svincolarsi dal luogo comune. Non ha paura del confronto, lo cerca. Trasforma i suoi limiti in risorse.
L’importante è essere se stessi, avere il proprio suono: il proprio, di nessun altro.
Se la chitarra è stata una zattera nella tempesta e suonarla mi ha fatto sentire più vicino agli dei, lo devo in gran parte a te mr. Page.

FRANK ZAPPA

quote-let-s-be-realistic-about-this-the-guitar-can-be-the-single-most-blasphemous-device-on-frank-zappa-86-52-30

“Ma dai, veramente?”
Certo che sì.
Ok, forse non è così facile prescindere lo Zappa chitarrista dallo Zappa compositore, e un pochino mi faccio influenzare da quest’ultimo. Sarebbe come giudicare Lennon o McCartney puramente per il loro talento vocale senza considerare le canzoni che hanno scritto. Ma per Zappa, almeno per me, è più semplice.
Intanto, se c’era uno consapevole di essere stato sottovalutato come chitarrista quello era proprio lui, al punto da sfogare la propria frustrazione pubblicando una serie di dischi di assoli improvvisati di chitarra.
Quindi proviamo a dimenticare Zappa il provocatore, l’istrione, il capobanda folle e dispotico e soprattutto l’autore caustico e geniale capace di muoversi tra tutti i generi musicali, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo la chitarra.
Eccolo lì, il re è nudo: smessi tutti i panni colti e profani c’è semplicemente uno spirito libero che suona come se non ci fosse un domani, usando tutti i suoni dello strumento, anche quelli che non dovrebbero essere emessi: la chitarra taglia, sussulta, grugnisce, fischia. E’ un fiume in piena che nella furia iconoclasta non dimentica la melodia.
Negli anni ho capito che i chitarristi che mi piacciono sono quelli in cui senti l’uomo dietro lo strumento: il chitarrismo di Zappa è un tuffo nell’uomo, l’esperienza più intima che l’ascoltatore possa avere con lui dentro la sua musica, l’unica nella quale è ammessa anche l’imperfezione. I chitarristi che mi piacciono sono quelli che non sono replicabili, che suonano come nessun altro: Zappa è talmente unico che o ti colpisce duro o non ti sembra nulla di speciale, non ci sono mezze misure. I chitarristi che mi piacciono sono quelli che portano lo strumento da un’altra parte: Zappa ha scritto musica per gruppi rock, ensemble jazz o cameristici, sintetizzatori digitali e orchestre sinfoniche, eppure il suo strumento era quello più “popolare” di tutti, la chitarra (tra l’altro prevalentemente l’elettrica).
Nelle note di copertina del triplo Shut Up ‘N Play Yer Guitar si legge un paragrafo che è insieme provocazione, epitaffio e manifesto, e recita così: Mentre i giornali e le riviste coprivano di lodi ogni altro chitarrista alla moda e condannavano Zappa per avere il coraggio di cantare testi che giudicavano disgustosi, egli continuava tranquillamente a suonare sul suo strumento cose che erano molto più blasfeme di quanto qualsiasi parola potesse esprimere. Presa dall’impeto di sentirsi offesa da quello che diceva, la stampa musicale si è scordata di ascoltare la sua chitarra. Gli assoli di Zappa catturati su quest’album dicono un sacco di cose che potrebbero rivelarsi imbarazzanti per gli scrittori che hanno dimenticato di ascoltare.